Nuove vite parallele – Cavour-Richelieu

Nei paragrafi che seguono cercheremo di mettere in evidenza i tratti in comune, nella biografia e nel pensiero politico, tra due statisti che furono gli artefici dell’accrescimento della potenza dei regni che servirono come ministri, l’uno, Cavour, facendo del suo, il Piemonte, il primo nucleo di uno stato unitario, l’altro, Richelieu, trasformando la Francia nello stato-guida della politica dell’Europa occidentale almeno fino al congresso di Vienna, una volta risolta a favore di essa la rivalità con la Spagna.

1.Fu soprattutto l’impronta materna ad essere determinante nella formazione di Armand Jean du Plessis, futuro cardinale di Richelieu, nato a Parigi il 9 settembre 1585: a cinque anni egli perse il padre, e fu così educato dalla madre, Susanne de La Porte, finché non fu inviato al Collegio di Navarra, all’età di nove anni, e poi all’accademia militare.
2.Destinato così alla carriera militare, Richelieu fu tuttavia costretto a diventare vescovo dopo la rinuncia del fratello, Alphonse, a reggere l’episcopato a Luçon per entrare nei certosini; tale episcopato, infatti, era prerogativa dei du Plessis dal 1584. Ma il periodo in cui fu porporato a Luçon fu per Richelieu più un periodo di aprendistato da uomo di Stato che non di Chiesa. Risale a questo periodo quello che può considerarsi il manifesto del suo pensiero politico, le Briefves Instructions, dove emerge la concezione della Chiesa come braccio spirituale dello Stato, da cui essa riceve, di riflesso, il riconoscimento della propria autorevolezza temporale.
3.Nel 1610 il vescovo non riuscì ad ottenere i voti necessari per diventare delegato della provincia di Bourdeaux all’assemblea del clero a Parigi: il suo scopo, infatti, era quello di affacciarsi sullo scenario politico della capitale. Ma il suo sbarco in essa era solo rimandato di quattro anni: nel 1614, infatti, fu eletto deputato del clero del Poitou agli Stati Generali. Ma fu negli anni immediatamente precedenti che Richelieu aveva già maturato la sua scelta di parte decisiva: quella di schierarsi con la regina Maria de’ Medici, da poco vedova di Enrico IV e reggente per il piccolo Luigi XIII, nel braccio di ferro con le famiglie blasonate di Francia, i Condé, i Bouillon, i Nevers. Il suo lealismo dinastico lo premiò: grazie all’appoggio e alla simpatia della regina madre, Richelieu divenne suo consigliere particolare, anche se era sempre Concini a mantenere un ruolo di primo piano, e fu prima sul punto di diventare ambasciatore straordinario in Spagna, e poi, liberatosi il posto di segretario di Stato per la guerra, riuscì ad ottenere tale carica. Era il 1616.
5.Tuttavia se la madre era una grande sostenitrice di Richelieu, non così sembrava esserlo il figlio Luigi XIII: egli infatti mal sopportava la reggenza della regina genitrice, e ancor meno l’influsso dell’italiano Concini, che ella aveva rifiutato di estromettere dal ruolo di ministro per far posto al principe di Condé, come si era addivenuto in sede di accordo con i principi del sangue. Nel suo cuore aveva fatto breccia un altro favorito, Charles d’Albert de Luynes, e a lui sacrificò l’entourage materno. Lo stesso Concini fu fatto uccidere il 24 gennaio 1616; ad affiancare il Luynes, quindi, tornavano in auge a corte vecchi collaboratori del padre, Brulard, Villeroy, Jeannin e Du Var.
6. Frattanto Richelieu era stato confinato ad Avignone, dove conduceva studi di teologia. Ma il suo esilio non doveva durare molto. De Luynes in politica interna e Brulard nella gestione dell’inizio della guerra dei Trent’anni stavano scontentando un pò tutti: la regina madre, che si era ritirata a Blois, gli ugonotti, che mal tolleravano il mantenimento della linea di amicizia con la Spagna e con l’Austria, e, nello stesso tempo, l’ambigua terzietà tra Lega Cattolica e Unione Protestante, ed erano ormai sul punto di scatenare una guerra civile dopo la spedizione-crociata nel Bearnese e gli episodi repressivi avvenuti a Parigi; e infine la stessa Spagna, che fu scaricata per mezzo degli accordi con i Savoia e Venezia per la guerra in Valtellina. In questo quadro sembrò al ministro che l’unica mossa per ristabilire l’unità del paese fosse il riappacificamento tra Anna de’ Medici e il figlio, e che la persona più adatta in tale operazione fosse Richelieu. Questo fu forse l’unico atto meritorio del gabinetto de Luynes, e non gli valse a salvare la poltrona: dopo la pace di Angers, che sancì in effetti il ritorno di Anna a corte, l’ex favorito del re e Broulard furono esonerati; nuovo primo ministro fu La Vieuville, che strinse alleanza con gli Olandesi e, facendo sposare la sorella del re al principe del Galles, aprì anche all’intesa con l’Inghilterra. Richelieu, che nel 1622 era diventato cardinale, fu cooptato nel nuovo governo, e due anni dopo fu chiamato a presiederlo.
7.Sin da subito Richelieu dimostrò che la chiacchierata equivicinanza di De Luynes tra le due parti religiose, cattolici e protestanti, non sarebbe stata abbandonata nella sua politica. Più che la Spagna, con cui, nonostante le frizioni, l’allenza veniva mantenuta, il nemico in quel momento era l’Austria. Fu proprio per contrastare l’espansione degli Asburgo austriaci che il cardinale inviò in Valtellina nel 1625 un contingente di calvinisti svizzeri: ciò però non gli impedì di stipulare con la Spagna, un anno dopo, il trattato di Monzon, che riconosceva sì il possesso della Valtellina ai Grigioni, ma nello stesso tempo la poneva sotto il controllo delle truppe pontificie.
8.Frattanto il partito cattolico, che appoggiava le pretese al trono del fratello del re, Gastone d’Orleans, e si raccoglieva attorno al fior fiore della stratiocrazia di Francia, aveva ordito una congiura contro Richelieu, di cui erano a parte, addirittura, la vecchia regina madre ed Anna d’Austria, moglie del re. La reazione del cardinale fu energica quanto spietata: una volta scoperti, i capi della macchinazione furono giustiziati senza colpo ferire. Tra essi c’erano il maresciallo d’Ornano e i conti di Montmorency-Bouteville e di Chalais. Tuttavia le nuove incombenze sul fronte interno non gli permettevano di andare ulteriormente a fondo nelle implicazioni della stessa famiglia reale nell’attentato. Gli ugonotti, infatti, si sentivano minacciati dall’asse tra la Francia e la Spagna e, per difendere i loro possedimenti in terra transalpina, si erano rivolti all’Inghilterra. Da Londra, in effetti, era già pronto un piano di sbarco, con una flotta di cento unità al comando del duca di Buckingham, un lord cresciuto in Francia, a suo tempo fautore del matrimonio tra la sorella di Luigi XIII e Carlo I e, secondo Dumas, sentimentalmente vicino alla stessa regina Anna. Sempre Dumas racconta che Richelieu avrebbe incaricato una spia al suo servizio, Milady De Winter, spregiudicata figura femminile, di uccidere il duca, ma, seppure la donna non riuscì a portare a termine questa missione, la campagna fu comunque vittoriosa e fulminea. Buckingham fu bloccato da all’isola di Rhé e dovette ritirarsi; sulla terraferma fu Richelieu in persona ad assumere il comando delle operazioni, e in poco tempo arrivò sotto le mura di La Rochelle, che capitolò. Una seconda flotta di sostegno agli ugonotti dall’Inghilterra, sempre guidata da Buckingham, non arrivò mai: nel frattempo infatti il duca era stato ucciso, all’uscita del parlamento, da Giovanni Felton, un ufficiale, o secondo altri un oscuro marinaio,  che aveva militato ai suoi ordini, e che con il suo gesto pensava di rendere giustizia alla patria, ferita dai rovesci subiti a causa della sua politica a partire dalla spedizione nel Palatinato, nel 1625.
9.La campagna contro gli ugonotti, per incamerarne i territori e difendere l’integrità della Francia minacciata dall’ombra inglese, proprio come ai tempi della guerra dei Cent’anni, non poteva certo dirsi una prova di riavvicinamento al partito cattolico. Anzi, la successiva guerra di successione, di nuovo in Italia, fu l’inizio di una fase di raffreddamento dei rapporti con la Spagna. Era accaduto che il ducato di Mantova e del Monferrato fosse rimasto senza il suo titolare, e che gli Spagnoli, che a quel tempo erano i padroni assoluti nella penisola, candidassero come nuovo duca Carlo Emanuele I di Savoia. Ma la Francia, così come non aveva potuto permettere un rafforzamento della presenza asburgica in Valtellina, così’ doveva evitare quello dell’egemonia spagnola in un altro territorio strategico della Lombardia, e così contrappose al duca di Savoia Carlo I di Gonzaga Nevers. Per le operazioni su questo fronte Richelieu scelse ancora una volta di assumere il comando in prima persona, come a La Rochelle. La contemporanea alleanza militare con la Svezia consentiva di aprire un fronte simultaneo contro Austria e Impero. Tale alleanza venne stipulata a Barwalde il 13 gennaio del 1631, e comortava cheil re Gustavo II Adolfo non creasse problemi alla politica richelievana di combattere contro l’imperatore ma senza ledere i singoli stati tedeschi, di cui invece il cardinale teneva a rispettare l’autonomia con la prospettiva di farseli alleati. Ma Gustavo, col pretesto di sventare le mire bellicose della Baviera contro il suo paese, di cui aveva avuto sentore, tradì in sostanzai patti e, invasa la regione, si spinse fino a Monaco. Provvidenziale fu quindi la sua morte in battaglia a Lutzen per non creare ulteriori imbarazzi nella politica filotedesca di Parigi. Intanto la campagna d’Italia si concludeva con fulmineo successo, giacché proprio il pericolo svedese aveva costretto l’imperatore a ritirasi in buon’ordine sul fronte italiano, e Carlo I acquisiva il ducato, ma le tensioni con la Spagna si erano ormai irreversibilmente acuite, e il partito cattolico, in patria, tornava a macchinare drastici cambiamenti.
10.Per la verità, stavolta, la fazione di Gastone d’Orleans si era sollevata anche e soprattutto in conseguenza della decisione di Luigi XIII di esiliare definitivamente Maria de’ Medici. La fiducia del re nel suo cardinale si era ormai fatta granitica, ed egli potè così sventare anche più agevolmente una nuova congiura contro di lui.
11.Se fino alla morte di Gustavo Adolfo di Svezia a Lutzon, Asburgo d’Austria e casa di Spagna erano stati due nemici sostanzialmente separati, nel 1635, quando Madrid intervenne in favore dei cugini austriaci, essi divennero infine un sol nemico. Allo scontro frontale con la Spagna, del resto, Richelieu si preparava da tempo, dedicandosi a curare il consolidamento della flotta di Francia, sul modello di quella olandese. Ciò, comunque, rispondeva anche alle nuove esigenze di espansione coloniale, dal momento che proprio in quegli anni la Francia, ai possedimenti nordamericani, affiancava il Senegal in Africa e la Guyana e l’isola di Saint Kitts nelle Indie Occidentali; a questi territori si sarebbero poi aggiunte, nel 1635, Guadalupa e Martinica.
12.La prima fase del nuovo conflitto volse decisamente in favore della Spagna, grazie a condottieri del calibro di Ottavio Piccolomini, del cardinale-infante Ferdinando, di Giovanni Werth e di Tommaso di Savoia. Di fronte all’invasione del suolo francese e all’occupazione di Compiègne il cardinale spronò gli altri vescovi di Francia a farsi baluardi armati in didfesa della patria, e così si ebbero eroici episodi come quello dell’arcivescovo di Bourdeaux che guidò la stenua resistenza all’avanzata nemica. Lo stesso Richelieu dirigeva intanto la difesa di Parigi e la sua riorganizzazione militare, tutto questo non senza i consueti costi fiscali, che, come già in altre occasioni create dalla sua politica, alimentavano il malcontento popolare. Unito ad esso, era già alle porte una nuova sollevazione aristocratica, ordita ancora da Gastone e capeggiata dal marchese de Cinq-Mars, favorito del re, e dal presidente del Parlamento, de Thou, quando la riscossa nazionale si concretizzava con la riconquista di Corbie e i successi di Bernardo di Sassonia-Weimar, che riprendeva Brisach, e di Vittorio Amedeo I di Savoia, che sbaragliava gli Spagnoli a Mombaldone, in Italia. Vittorio avrebbe voluto spingersi anche in Liguria, ma gli mancò l’appoggio proprio della Marina francese.
13.C’era chi accusava Richelieu di adottare criteri spudoratamente nepotistici nella scelta degli omini che ne avrebbero raccolto l’eredità; era vero in effetti che quelli che sarebbero stati i comandanti in capo dell’esercito francese erano suoi parenti, il duca d’Enghien, marito di una nipote, e il marchese di Brézé, che era suo nipote diretto. Ma per assicurare la continuità del suo operato alla guida dello stato Richelieu non volle altri che un prelato di origine abruzzese, Giulio Mazzarino, che ai suoi occhi si era segnalato durante la guerra del Monferrato, come ambasciatore pontificio. In seguito, designato nunzio straordinario in Francia, fu naturalizzato francese, cambiando così il nome da Mazzarino in Mazarino e, per interessamento dello stesso Richelieu, divenne porporato, benché in realtà non fosse neppure sacerdote. La sua successione era ormai un fatto compiuto allorché lo statista, con la sua solita draconiana inesorabilità, fece arrestare, processare da una corte marziale de Cinq-Mars e il suo gruppo di cospiratori.
14. Fu questo il suo ultimo atto da primo ministro, nel settembre del 1642: poco dopo, alle soglie del Natale di quell’anno, si spegneva senza affanni vinto dal male che lo minava da tempo.

15. Camillo Benso di Cavour nacque a Torino il 10 agosto 1810, dal marchese Michele e da Adele de Sellon, calvinista poi convertitasi al cattolicesimo. Il padre in gioventù prestò servizio nell’esercito napoleonico, poi dopo essersi fatto massone, divenne una delle personalità di spicco della politica municipale torinese. Consigliere dal 1819, fu sindaco nel 1833, e, negli ultimi anni, precisamente dal 1825 al 1847, vicario di polizia.
Per sei anni, dal 1820 al 1826, il giovane Camillo frequentò l’Accademia militare, e fu anche paggio di Carlo Alberto. Al termine del corso divenne ufficiale del genio, e fu a Torino, Ventimiglia, Exilles e Genova. Qui venne a contatto e sposò le idee dell’insurrezione carbonara del 1830, in stridente contrasto con la divisa da lui portata.
16.Fu così che fu richiamato a Torino dai suoi superiori, e tenuto in punizione al forte di Bard dalla primavera all’autunno del 1831. Fu durante la prigionia che egli maturò la convinzione che la vita da ufficiale non faceva per lui: e nel novembre di quello stesso anno, col permesso della famiglia, si congedò dalle armi.
17. Egli poté così dedicarsi alla gestione delle tenute agricole di famiglia a Leri, anche come membro dell’Associazione agraria dal 1842, e a viaggiare nei paesi culla del liberalismo europeo, la Svizzera, la Francia e l’Inghilterra. Nel frattempo fu anche sindaco di Grinzane che da lui avrebbe preso il nome di Cavour.
18. All’attività di amministratore affiancò, copiosa, quella d pubblicista: nel 1847 co-fondò con Cesare Balbo e diresse Il Risorgimento. Se oggi chiamiamo la stagione della storia italiana che portò alla sua unificazione con questo nome lo dobbiamo proprio a quella testata. Da tale tribuna chiese e ottenne la concessione della costituzione da parte di Carlo Alberto.
19.Sull’onda della battaglia statutaria combattuta dalla colonne del suo giornale, Cavour fu eletto alla Camera piemontese nel 1848 e nel 1849.
Cooptato nel governo liberal-conservatore di D’Azeglio, divenne prima ministro dell’Agricoltura e poi delle Finanze: in entrambi i settori la sua missione fu quella di modernizzare il Piemonte e di portarlo ad essere al passo con gli stati più progrediti d’Italia, a livello di infrastrutture e di politiche agricole, campo quest’ultimo in cui aveva, certo, una lunga e affermata esperienza.
20. All’interno del parlamento subalpino il ministro era diventato il punto di riferimento di una corrente di destra moderata e modernista, disposta a dialogare con la sinistra democratica di Urbano Rattazzi per un compromesso di programma finalizzato alla formazione di una nuova area di governo, Tale compromesso, passato alla storia col nome di “connubio”, portò in effetti di lì a poco Cavour alla guida del suo primo esecutivo. E con lo stesso Rattazzi come ministro di Grazie e Giustizia la sua azione non tradì sicuramente l’indirizzo riformista che ne era alla base: tra i primi provvedimenti di esso all’interno ci furono infatti una proposta di legge per i matrimoni civili e l’incameramento dei beni degli ordini religiosi, nel 1855. Questo fu anche l’anno che offrì, finalmente, al regno del Piemonte, l’occasione di essere riconosciuto sullo scenario internazionale come uno stato degno di avere rapporti da pari a pari con gli stati europei e da peso più decisivo nella poltica euro-mediterranea. Storicamente, infatti, a differenza delle altre regioni italiane, il Piemonte, sin dall’Alto Medioevo, non aveva mai subito dominazioni in successione, ma si era sempre mantenuto autonomo, grazie ai conti e ai duchi di Savoia, che, provenienti dalla Francia, avevano pian piano allargato il loro dominio in quella che era stata l’antica terra delle tribù liguri dei Levi, di Victimuli, dei Leponzi, dei Taurini e egli Statielli. Sicché, in un panorama di stati e staterelli in cui era più o meno forte l’influenza dei dominatori stranieri di turno, a parte lo Stato Pontificio, il Piemonte aveva sempre dato l’impressione, e questo era anche un suo vanto, di essere un vero e proprio stato sovrano, proprio come Francia, Inghilterra e Spagna, di dimensioni minuscole rispetto a questi ultimi, ma assolutamente tale. Convinzione di Cavour era che il regno di Sardegna dovesse prendere più decisamente coscienza di questo, e farsene carico per risolvere a tutto vantaggio della propria espansione la lotta per la liberazione dell’Italia, che non poteva più essere lasciata in mano alle società segrete e ai tentativi romantici e isolati di redimere la patria; la strada, del resto, era già aperta, l’ammirazione dei patrioti per il coraggio e la generosità del Piemonte di Carlo Alberto nella prima guerra di indipendenza aveva tolto molti sostenitori al sempre fecondo partito di Mazzini, l’ideologo dell’Italia unita e repubblicana il cui insegnamento continuava a spingere gli ardimentosi al sacrificio.
21. L’ingresso ufficiale del governo di Torino nella causa dell’Italia libera e indipendente fu la costituzione della Società nazionale nel 1857: si trattava di uno schieramento politico e civile molto trasversale, in quanto comprendeva moderati, cattolici, liberali, progressisti, ex mazziniani, che aveva lo scopo di supportare un orientamento filo sabaudo nel processo di unificazione. Dal drenaggio della Società nazionale le file dei mazziniani uscirono definitivamente esauste, quello che Cavour desiderava: in quello stesso anno si concluse tragicamente l’avventura dell’ultimo mazziniano, Carlo Pisacane.
Nel 1855, si diceva, la Turchia aveva chiesto l’aiuto dei principali stati europei contro la Russia che minacciava la Crimea, una regione dell’impero ottomano, e l’Inghilterra chiese al Piemonte un corpo ausiliario di mercenari; ma Cavour s’impuntò, pretendendo che l’aiuto piemontese sarebbe stato offerto solo a patto che il regno sabaudo venisse riconosciuto come alleato alla pari di Francia e Inghilterra, e che gli fosse concesso di inviare sul teatro di guerra quindicimila soldati. Naturalmente, più del prestigio derivante dall’azione militare, che in realtà sarebbe stata ausiliaria a quella degli stati più grandi, per il governo di Torino contava la possibilità di ottenere la consacrazione europea del Piemonte come stato- guida in Italia.
22. Il congresso di Parigi dell’anno successivo fu per Cavour la cornice per definire alcuni assi internazionali che avrebbero assicurato al regno dei Savoia l’espansione in Italia. Non solo quello con la Francia, che, date le comuni mire antiaustriache, sembrava avere effetti più prossimi, ma, più a lungo termine, quello con l’Inghilterra, il cui appoggio marittimo sarebbe stato fondamentale in un’eventuale spedizione contro il sud e il regno di Napoli.
Per l’accordo con la Francia di Napoleone III, che doveva portare ad una guerra congiunta contro l’Austria, e probabilmente, nella mente dello statista, anche a semplificare la questione di un’eventuale annessione di Roma – praticamente dal 1849 la Città Eterna era una sorta di protettorato francese -, Cavour andò personalmente a trovare l’imperatore nella stazione termale di Plombieres. Le cronache riportano che abbia tentato di stimolarne l’amicizia anche con forme di maggiore allettamento, non ultima la seduzione della contessa di Castiglione, ma le linee guida, in buona sostanza, furono tracciate in un giorno di autunno del 1858 in quel luogo di soggiorno e di cura.
23.L’obiettivo massimo del conflitto era la conquista del Veneto e della Lombardia: in realtà fu raggiunto solo quello minimo, ossia l’annessione della seconda regione, perché, proprio quando le cose sul campo sembravano volgersi per il meglio, Napoleone III a sorpresa sospese le operazioni e concluse un armistizio con l’Austria, a Villafranca. Quella fu forse la prima volta nella sua vita in cui Cavour si sentiva offeso e tradito: per protesta contro questa condotta bellica, e valutando che il suo governo fosse impotente di fronte alla piega presa dagli eventi, si dimise e lasciò il governo al generale Lamarmora, colui che al regno sabaudo aveva dato lustro in Crimea, con i suoi bersaglieri. Era il 1859. Meno di un anno dopo il re lo richiamò al suo posto. Cavour di buona lena si rimise al lavoro, confortato anche dai segnali che provenivano dal granducato di Toscana e dalle terre pontificie più settentrionali, dove gli esponenti della Società nazionale avevano guadagnato le popolazioni alla causa sabauda, e reso maturo il terreno per il plebiscito. Così, infatti, avvenne l’unione al regno di Sardegna di Toscana, Emilia, Romagna e Umbria.
24.Ma i tempi ora sembravano maturi anche per la conquista del regno meridionale. Cavour accettò che Garibaldi, il generale giramondo iscritto alla Società nazionale ma da sempre di ferventi sentimenti mazziniani, capeggiasse alla volta della Sicilia un corpo di volontari, poco più di un migliaio, solo a patto che la sua fosse un’azione in stretto collegamento con quella delle truppe di Cialdini, che si sarebbero ricongiunte alle sue una volta completata la conquista delle regioni adriatiche. Più di ogni altra cosa lo rassicurava la garanzia della flotta inglese in funzione di copertura, com’era già stato evidentemente concordato sin dal 1856. Secondo Cavour la parte garibaldina dell’impresa in effetti avrebbe potuto dirsi già conclusa a Calatafimi e con la presa di Palermo; la risalita dello Stretto e l’arrivo in Campania, con lo sbaragliamento delle truppe borboniche al Volturno che spalancava le porte di Napoli, per quanto fossero sviluppi preventivati, scombussolavano ormai seriamente i piani. Gli sembrò allora opportuno e urgente far muovere lo stesso re Vittorio Emanuele, per ottenere dal generale vittorioso la ratifica dei nuovi domini,e insieme per inviatralo ad arrestarsi congratulandosi per i successi già colti. Frattanto l’esercito dei Savoia al comando di Cialdini toglieva al dominio papale le Marche e batteva i borbonici in Abruzzo, dove Garibaldi non era ancora arrivato.
25.Adesso, dopo la fine di questa campagna, se c’era qualcuno deluso e amareggiato era proprio Garibaldi: egli avrebbe di sicuro puntato su Roma per conquistarla con le armi, cioè appunto quello che Cavour temeva nelle sue intenzioni. Dopo la scottatura dell’accordo con la Francia, infatti, egli aveva rinunciato del tutto ad un’azione di forza per arrivare al cuore dello Stato della Chiesa, ma immaginava, probabilmente, una sorta di annessione su base plebiscitaria, o un accordo diplomatico col pontefice stesso. La formula, di sua elaborazione, che lo tormentava in quei giorni era quella della “libera Chiesa in libero Stato”, in base alla quale le istituzioni riconoscevano l’autorità e la supremazia spirituale della Chiesa in cambio della deposizione, da parte del papa, del potere temporale, che restava prerogativa unica e indiscussa dello Stato. Sognava uno Stato postunitario laico, dunque, così avanzato da rispettare e da emancipare da privilegi medievali il potere ultraterreno della Chiesa. Ma il papa Pio IX rifiutò questo principio, così come rifiutò di riconoscere la legittimità del nuovo Stato peninsulare.
26.A Cavour, comunque, restava poco tempo per poter digerire questo rifiuto. L’iperattività sfibrante – o una nuova, stroncante, crisi malarica, dal momento che Cavour conviveva da sempre con una forma di malaria, contratta quand’era giovane nelle risaie di famiglia nel Vercellese – lo portava ad ammalarsi all’improvviso, nella primavera del 1861, pochi mesi dopo che la stagione risorgimentale si era conclusa, solennemente, con la proclamazione dell’unità d’Italia in una seduta straordinaria del parlamento piemontese, divenuto adesso parlamento italiano. Qualche mese più tardi chiese e ottenne che esso proclamasse Roma capitale, perché questo atto sancisse l’impegno, per i governi italiani a venire, a trasformare in realtà quello che sembrava ancora impossibile. E così il torinocentrico statista si spegneva da ardente romanocentrico, il 6 giugno 1861.
27. Gli successe Bettino Ricasoli, il promotore del plebiscito con cui la Toscana si era unita al regno di Sardegna. Ma cadde un anno dopo per l’opposizione di Rattazzi, agli occhi dei più una sorta di successore predestinato di Cavour, ansioso di salire al governo e risolvere la questione romana per via garibaldina. Ma, bloccato dal solito veto della Francia, tutto quello che seppe fare fu di arrestare l’avanzata dal sud di Garibaldi, che, passata la Sicilia, era giunto in Aspromonte: l’eroe dei due mondi finì addirittura in carcere per qualche tempo. Dopo la parentesi Farini, già collega di Cavour nel governo d’Azeglio, fu la volta di Marco Minghetti, cavouriano di ferro dall’Emilia. Questi con la convenzione di settembre del 1864 sembrò rinunziare, per il momento, a Roma capitale d’Italia, accettando di spostare la sede del governo da Torino a Firenze in cambio di un disimpegno militare francese a presidio di Roma, che però sarebbe stato annullato in caso di azione di forza volta a rompere l’accordo. Una mossa attendista abbastanza degna di Cavour, a dir la verità: ma nell’immediato, proprio nel momento in cui appariva un passaggio rilevante per uscire dallo stallo di un nodo insolubile, il documento vincolava subdolamente l’Italia ad un immobilismo ancora più controproducente. Così l’esecutivo Minghetti non sopravvisse al suo atto più importante: l’opposizione insorse e, dopo Lamarmora, la conquista del Veneto e un secondo gabinetto Ricasoli, tornò Rattazzi, che si ritrovò ad avere nuovamente a che fare con Garibaldi. Era evidente che mai come stavolta era necessario tenere a freno il decisionismo del vecchio ma irriducibile generale nizzardo, proprio per evitare che Napoleone mettesse in atto la minaccia di far tornare a Roma le sue truppe di custodia al papato. Ciò che effettivamente avvenne, non appena da Parigi si ebbe sentore di una nuova iniziativa armata in camicia rossa: i francesi si reinstallarono più saldi di prima e Garibaldi concluse la sua corsa a Mentana. Ma fu il suo ultimo tentativo in tal senso: amareggiato dalla doppiezza del governo per cui combatteva, e anche scosso dal sacrificio dei fratelli Cairoli, rinunciò per sempre a guidare la conquista della fatidica città. A Mentana, praticamente, si chiudeva anche la seconda e ultima esperienza di gabinetto di Rattazzi, ancora una volta per colpa di Garibaldi: accusato, infatti, come già nel 1862, di non aver saputo evitare che l’azione garibaldina diventasse motivo di imbarazzo internazionale, il primo ministro dovette dimettersi, proprio come allora.
28.Il destino voleva comunque che la vicenda capitolina alla fine si risolvesse senza Garibaldi, eppure nel modo che Garibaldi avrebbe voluto. Ciò però fu reso possibile anche dagli sconvolgimenti che stavano avvenendo oltralpe: nel 1870 la disfatta di Napoleone III nella guerra franco-prussiana aveva portato infatti alla caduta dell’Impero e all’instaurazione della Repubblica. Ne approfittò il governo italiano per affrettarsi a dichiarare ormai nulla la convenzione: esso era ora guidato, dopo Menabrea, l’ex ministro della Marina di Cavour, da Giovanni Lanza, che con Cavour era stato invece ministro dell’Istruzione. Questi inviò sotto le porte di Roma il IV Corpo d’armata dell’esercito, al comando di Raffaele Cadorna: era il 20 settembre 1870, e la Città eterna veniva annessa al Regno d’Italia come sua nuova capitale. Meno di un mese dopo Garibaldi partiva per la Francia per la sua ennesima esperienza da capitano di ventura: guidare un esercito di volontari a difesa della neonata Repubblica.
Così, dopo altri dieci anni e sei esecutivi di diversa guida, anche se rimaneva sostanzialmente irrisolto il problema di come impostare il rapporto tra Stato italiano e Chiesa, poteva dirsi concluso quel programma che Cavour, se soltanto avesse avuto qualche anno di vita in più, avrebbe saputo portare a termine da solo e, probabilmente, in minor tempo.
29.C’è subito da notare che sia Richelieu che Cavour abbandonarono la carriera nell’esercito per darsi alla politica, l’uno però, e cioè Richelieu, controvoglia, e difatti anche da statista mantenne sempre un’impostazione da stratega, l’altro, invece, Cavour, perché non vi era portato per natura. Di conseguenza, mentre Cavour preparò sempre le sue guerre e le sue spedizioni militari a tavolino, Richelieu non disdegnò, spesso, di condurle anche in prima persona sul campo. Quanto all’indole politica, mentre Richelieu fu un ottimo statista ma un pessimo amministratore, Cavour fu lodevole ad entrambi i livelli, anzi si può dire che si formò politicamente proprio come amministratore agricolo e locale. Il cardinale, inoltre, tendeva a farsi molti nemici, e non esitava, all’occorrenza, ad adoperare il pugno duro e ad essere repressivo, di qui la macchinazione di molte congiure contro di lui; lo statista piemontese, invece, anche in questo caso preferiva risolvere le sue divergenze sopra il tavolo, o comunque mai al di fuori di un leale confronto parlamentare o di gabinetto. Ma quando si trattò, per la ragion di Stato, di contrastare gli interessi territoriali di una potente fazione religiosa o dello stesso clero romano, furono entrambi inflessibili, al di là del loro modo di concepire la relazione tra Stato e Chiesa: relazione che per Richelieu, come si è detto, era fondata sull’ancillarità della Chiesa rispetto allo Stato, per Cavour invece sull’equilibrio determinato dalla delimitazione condivisa delle sfere di competenza dell’uno e dell’altra. Entrambi, poi, dovettero subire quello che si può chiamare il tradimento di un alleato, la Svezia per Richelieu, la Francia per Cavour. Nel regolare la questione della propria successione, però, Richelieu fu senz’altro superiore a Cavour: mentre infatti il francese pensò per tempo ad assicurarsi un entourage che potesse garantirgli la prosecuzione della sua opera, in primis il cardinale Mazzarino, Cavour non pensò, ma in effetti non ne ebbe neppure il tempo, a fare altrettanto; e così lasciò che a raccogliere la sua eredità non fosse un successore designato, ma tanti successori, che con Cavour avevano certamente condiviso tante esperienze e momenti parlamentari e politici, ma a lui erano sempre stati secondi.


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