Nella Bibbia, specie nel Vecchio Testamento, che per molti aspetti è coevo ai più antichi testi mesopotamici ed egizi, la narrazione seguita è quella paratattica, in cui i fatti si susseguono secondo un’elementare successione temporale. Nella narrazione sintattica ci sono invece le digressioni sul passato e le prolessi relative al futuro.
Se la Bibbia è il libro dei libri, il motivo è anche questo, che racchiude in sé tutti i generi di letteratura narrativa.
La fantascienza (Apocalisse);
la narrazione storica (Genesi, Esodo, Re, Giudici, Samuele, Atti degli Apostoli, Maccabei);
la narrazione storico-biografica (Giosuè, Sansone, Ester);
la biografia-testimonianza (Vangeli).
Naturalmente non mancano la poesia con i Salmi, la Sapienza e i Profeti e i testi legislativi con i Numeri e il Deuteronomio.
Forse il modo di muoversi di Trump tra gli altri candidati della prima fase ricorda più esattamente quello di Messala nella corsa delle bighe di Ben Hur. Uno dopo l’altro il costruttore miliardario sbaragliò Jeb Bush, Ted Cruz e Marco Rubio, accostando opportunamente le sue ruote rostrate al loro carro.
Per quanto riguarda il primo, uno dei favoriti della vigilia se non altro perché figlio e fratello d’arte, Trump andò a urtare la ruota delle responsabilità pregresse: della triste e turpe eredità, cioè, che gli lasciava il fratello George Walker con la guerra in Iraq. Indirettamente Trump cercava anche di incitare gli americani a considerare finito il tempo dei Bush, e così Jeb finì a terra, il corpo giacente sulla rena destinato a essere schiacciato da qualche altro carro sopraggiungente.
Nel fianco a fianco con Rubio, invece, la perforazione fatale ebbe la forma della presa in giro cattiva, provocatoria e sminuitoria: prese a dargli un soprannome, “Piccolo Marco”, che non era un modo con cui un settantenne di grande esperienza dava del “ragazzino” a un avversario più giovane (con i suoi 44 anni, Rubio era in effetti il candidato più giovane in lizza), ma piuttosto alludeva alla bassa statura, accoppiata a un modo di fare troppo nervoso e frenetico. Rubio provò a sua volta a fare il Messala, ma non gli riuscì molto bene dal momento che di Messala ce n’era già uno e piuttosto valido: provò, cioè, a contrattaccare con quella frusta che Messala tentò inutilmente di adoperare contro un Ben Hur il cui carro non voleva saperne di cedere. E quindi scese allo stesso livello di Trump, uscendosene con una battuta che accusava l’avversario di avere un organo sessuale di piccole dimensioni, a giudicare da quelle delle mani. Questo attacco fece calare paurosamente le quotazioni di un candidato che sembrava promettere molto.
Con Cruz, infine, lo sperone di Trump affondò sulle origini del candidato: il senatore del Texas, infatti, è figlio di immigrati cubani (lo è anche Rubio) e inoltre è nato in Canada. Trump protestò che la sua candidatura era quantomeno incostituzionale, dal momento che la Costituzione Usa stabilisce che possa essere eletto presidente solo e soltanto un “cittadino naturale” degli Usa, nato, cioè, sul suolo statunitense.
Per quanto riguarda gli altri pretendenti – Spannaus cita ancora, come candidati di prima fascia, Scott Walker, governatore del Wisconsin; Chris Christie, governatore del New Jersey; Rand Paul, senatore del Kentucky; John Kasich, governatore dell’Ohio; Ben Carson, celebre chirurgo afroamericano, e Carly Fiorina, ex ceo (amministratore delegato) della Hewlett Packard – o si ritirarono dalla corsa anzitempo oppure furono “stracciati” oppure uscirono non necessariamente perché eliminati dagli altri candidati del quartetto di cui abbiamo parlato sopra. Rubio, in realtà, rappresenta un caso particolare perché in effetti non fu il confronto con Trump, comunque deleterio, a scaraventarlo fuori dalla pista, bensì un altro faccia a faccia, quello con Christie, che però poi sgombrò il campo per passare dalla parte trumpiana. Una prefigurazione di quello che sarebbe stato il suo schieramento, di lì a poco, si può vedere nei toni con cui Christie si assicurò il successo in quel dibattito, davvero molto trumpiani. E da Rubio ottenne la medesima reazione che questi aveva già opposto al miliardario.
Ancora una volta la metafora della gara ippica di Ben Hur fa al caso nostro: a Messala, proprio come a Trump, non fu necessario eliminare la totalità dei concorrenti. Quelli che, nel circo di Antiochia (l’esatta individuazione geografica del teatro della gara è un dato che desumiamo dal romanzo, giacché nel kolossal non se ne fa menzione), con Messala, rappresentante di Roma, e Ben Hur, campione di casa, partecipavano alla corsa a cui Ponzio Pilato in persona diede il via, vantavano queste provenienze: Alessandria, Messina, Cartagine, Cipro, Corinto, Atene e Frigia. Questo, almeno, è il catalogo che compare nel film. Nel romanzo, invece, abbiamo un corridore di Atene, uno di Corinto, uno di Bisanzio e uno di Sidone.
Facciamo prima la telecronaca della sequenza cinematografica. Ebbene, a Messala fu sufficiente abbattere l’auriga di Cipro che, impaurito dai rostri del romano, si accostò troppo alla parete sotto la tribuna e franò a terra; e poi quelli di Corinto e di Atene, effettivamente “arpionati” nel gioco letale messaliano; l’ateniese, poi, nella caduta coinvolse anche il collega di Frigia o di Messina (vedendo la celebre sequenza del film non si capisce con nettezza). Uno tra questi due dovrebbe anche essere quello che, proprio a inizio corsa, subisce l’incidente che lo mette fuori gioco senza essere entrato in contatto con alcuno. Con Messala e Ben Hur, al giro decisivo, erano rimasti in pista solo l’auriga di Alessandria (riconoscibile dalla livrea rossa) e quello di Cartagine (contraddistinto dalla divisa color pelle scamosciata) che, avendo impostato fin dall’inizio una gara prudente e di accorto “accentramento” per evitare le insidie laterali, ben si contentarono di un piazzamento di prestigio alle spalle del vincitore, e dunque di un gettone di presenza che, se non fa bacheca, almeno confluisce negli almanacchi.
Questo, invece, è il racconto della gara nel testo originale di Lewis Wallace, che presenta sostanziali differenze. In pratica l’unico corridore a subire il contatto mortale con Messala – contatto che però sembra essere del tutto fortuito – è l’ateniese, che ha anche un nome, Cleante. Il romano non cerca (ammesso che lo cerchi) l’urto con le ruote o con la carrozzeria, ma con i cavalli, che si imbizzarriscono. Perso ormai il controllo del suo cocchio, Cleante va a franare contro il bizantino, e finisce schiacciato sotto gli zoccoli dei suoi stessi equini.
Diversamente da quanto si vede nel film, Messala limita le sue scorrettezze al solo duello con Ben Hur, mentre non commette irregolarità nei confronti degli altri concorrenti. In fondo, par di capire leggendo i capitoli 31 e 32 del romanzo (cioè quelli che narrano la corsa), la superiorità tecnica di Messala e di Ben Hur come aurighi, ma anche la superiorità dei loro cavalli, è tale che sin dai primi giri appare evidente come la lotta sarà a due, e che gli altri corridori dovranno rassegnarsi a essere figure di contorno. Per la verità, allo scoccare dell’ultimo giro, il sidonese tenterebbe un allungo, ma viene subito ripreso dai colleghi di Corinto e di Bisanzio, oltre che dai due big, che immediatamente si riportano al comando e così fino alla fine. Fino a quando, cioè, il testa a testa (e il corpo a corpo) decisivo vede soccombere il romano e trionfare il giudeo.
Ora, appare evidente che, nelle primarie repubblicane, i corridori di Cipro, Corinto e Atene (o semplicemente quello di Atene, se si considera il romanzo piuttosto che il film) rappresentano gli avversari che Trump eliminò direttamente attraverso le sue tattiche o con il suo urto inesorabile; quelli di Cartagine e di Alessandria (o, fedeli al testo wallaciano, quelli di Corinto, Bisanzio e Sidone) i candidati che, pur essendo riusciti a completare la corsa, alla fine si sono accontentati di perdere onorevolmente; quelli di Frigia e di Messina, infine, si possono paragonare tanto a quelli che sono stati eliminati in corsa ma non direttamente da Trump, quanto quelli che si sono ritirati anzitempo, senza venire a contatto con nessuno e anzi proprio per far sì che ciò non avvenisse (scoraggiati dai primi rovesci o dalla mancanza di mezzi adeguati).
Da un punto di vista strettamente correlato alla metafora trumpiana, verrebbe da dire che la sceneggiatura del kolossal con Charlton Heston e Stephen Boyd privilegia un’analisi dei meccanismi dell’ascesa di Trump nella fase delle primarie, mentre nel romanzo di Wallace ciò che conta è quasi esclusivamente il magnum discrimen con Hillary Clinton. La Clinton, infatti, in questa metafora circense equivale senz’altro a Giuda Ben Hur (e naturalmente non ci sfugge che nella nostra storia è Messala a vincere e non Ben Hur), mentre nel parallelo con Nerone riveste quasi necessariamente il ruolo di Agrippina, l’ultimo e più coriaceo ostacolo tra lui e la conquista del potere. L’eliminazione di Agrippina richiese a Nerone uno studio lungo e meticoloso, un impegno insonne alla ricerca del delitto perfetto; per Trump fu invece l’occasione di mettere in campo l’arsenale segreto di cui disponeva: i contatti con Putin.
È fuor di dubbio che ormai quanto all’origine del colosso di Barletta ci sono due piste: la pista costantinopolitana e quella ravennate. La prima è la più conforme alla tradizione, che vuole la statua trasportata in Occidente dai veneziani dopo il sacco di Costantinopoli del 1204 e abbandonata sulla spiaggia di Barletta. La seconda è frutto di più recenti studi, e metterebbe in collegamento la presenza della statua nella città pugliese con alcuni scavi proto-archeologici messi in atto da Federico II di Svevia a Ravenna, ultima capitale dell’impero romano d’Occidente e poi capitale dell’esarcato bizantino. Perché poi sia stata collocata proprio a Barletta e non in un altro punto della Puglia o del Mezzogiorno questo non è dato saperlo (Federico II, grande meridionalista, cercò di garantire un tesoro praticamente a tutte le città del suo regno, ma questo risponde solo blandamente alla nostra domanda; chi invece è convinto della provenienza della statua da Costantinopoli ha già una spiegazione). Bizantino è la parola-chiave per quanto riguarda il colosso, visto che di statua bizantina si tratterebbe o per l’identificazione del personaggio (uno degli imperatori della dinastia teodosiana) o per la fattura stessa della statua (se si dà per buona, naturalmente, la pista costantinopolitana, ma nulla esclude, comunque, che un maestro bizantino abbia potuto operare a Ravenna).
Per quanto riguarda la fattura, l’unica notizia che abbiamo riguardo a un possibile autore ci è data da un gesuita napoletano del ‘600, Paolo Grimaldi: nella sua Vita di San Ruggiero parla della statua barlettana, accettando la pista costantinopolitana, e fa il nome di Polifobo, <<un Greco eccellente nell’arte>>. Grimaldi aggiunge che il suo nome si poteva leggere in un epigramma di undici distici composto al tempo in cui (più precisamente nel 1491) la statua fu spostata dalla piazza della Dogana allo spazio antistante la basilica del Santo Sepolcro, dove si trova tuttora.
Riguardo al problema dell’identità del personaggio rappresentato, poi, l’approccio basato su una valutazione commomatica (cioè relativa all’abbigliamento) non è così profano. La presenza di una robusta loricatura (cioè di una corazzatura), di pteryges (il gonnellino di strisce di cuoio) e di un paludamentum (il mantello del dux; il globus e anche il diadema invece non sono elementi per forza determinanti) dovrebbe far escludere quasi del tutto la credenza più radicata nella tradizione popolare (vedasi nuovamente Grimaldi), quella secondo cui la statua raffigura Eraclio che però, data l’epoca in cui visse, dovrebbe essere già legato a un’iconografia bizantina di tipo più medievale (c’è la presenza della croce, o meglio della Vera Croce, che si vorrebbe legata a Eraclio in quanto fu l’imperatore che la sottrasse ai Sassanidi e la restituì ai cristiani, ma in sé e per sé la croce può anche essere un attributo di qualsiasi imperatore romano cristiano) Gli imperatori della dinastia teodosiana, invece, almeno quelli effettivamente già proposti dagli studiosi (parliamo di Arcadio, Teodosio II, Marciano, Leone I), possono essere tutti ugualmente presi in considerazione, se non altro perché le linee iconografiche di riferimento della dinastia (come la monetazione di Teodosio I e il dittico in avorio di Onorio) sono assolutamente vicine ai profili figurativi della classicità romana. Per gli stessi motivi sarebbero accettabili anche le ipotesi che vogliono il colosso raffigurare Valentiniano I od Onorio o Valentiniano III, imperatori romani a tutti gli effetti, se non si cadesse però in contraddizione con la tesi principale, e cioè che la statua è quella di un imperatore bizantino. La pista ravennate vuole che la statua sia un omaggio a Teodosio II, commissionato da Valentiniano III.
Intanto dalla valutazione commomatica siamo già passati a una valutazione prosopografica: di fatto c’è da dire che, per quanto riguarda Teodosio I e i successori della sua famiglia, in Occidente e in Oriente, i tratti fondamentali dell’espressione sono sostanzialmente ricalcati sulla faciescostantiniana (quella della severitas victoris sine turbatione) della statua colossale in bronzo dedicata al primo imperatore cristiano e fondatore di Costantinopoli (non tanto di quella in marmo, olympicaspecies, conservata come l’altra ai Musei capitolini a Roma). E poi c’è un ritratto scultoreo di Costantino conservato a San Giovanni in Laterano (e replicato per il sagrato di San Lorenzo a Milano) che mostra praticamente la stessa posa del colosso di Barletta (cambia solo l’espressione del volto, più modellata su una faciesclaudiana, olympicalaevitas). In effetti dal novero dei candidabili come soggetti rappresentati non si dovrebbero escludere neppure gli stessi Teodosio I e Costantino I: in quanto capostipiti di dinastia, è più che plausibile che la loro imago fosse, a livello statuario, figurahonoranda (o adorationis) molto più diffusa di quella dei loro successori, che potevano in ogni caso contare su un’abbondante rappresentazione in campo numismatico. A unire poi, idealmente ma non solo, Costantino e Teodosio c’era la politica filo-cristiana, e dunque costantinizzare Teodosio (ma anche i successori) poteva rispondere a un preciso programma propagandistico-figurativo. Per i motivi iconografici ricordati sopra non è azzardato ipotizzare che nelle città dell’impero, anche quelle orientali, ci fossero più statue dedicate a Costantino e a Teodosio che, per esempio, a Costante o ad Arcadio: e che venissero anche replicate in più versioni (succedeva spesso, nella scultura antica, anzi era una regola di bottega). Il colosso di Barletta potrebbe essere semplicemente una di queste versioni replicate, un Costantino vero e proprio oppure un Teodosio costantinizzato o magari – altra variazione sul tema – un discendente di Teodosio costantinizzato. Se la statua viene effettivamente da Costantinopoli le quotazioni dell’opzione-Costantino si impennano, visto e considerato che, come abbiamo visto, non erano infrequenti i ritratti colossali di quell’imperatore. Restano due domande ancora più insolubili: perché la statua si trova proprio a Barletta (l’antica Barduli o Bardulum) e chi era Polifobo.
La prima analogia che si può osservare mettendo a confronto Donald Trump e Lucio Domizio Enobarbo, meglio noto come Nerone, riguarda un tratto somatico, meglio ancora pogono-tricologico: c’è qualcosa di rosso a incorniciare il viso di entrambi, la barbetta nel caso di Nerone (Enobarbo significa proprio “con la barba ramata”), i capelli in quello di Trump (almeno del Trump giovane affarista rampante).
La prima differenza che è possibile invece cogliere riguarda la scalata politica: se Nerone fu aiutato in modo determinante dalla madre Agrippina, Trump ebbe più ostacoli che aiuti (al netto naturalmente delle dietrologie che lo vorrebbero protetto dai russi). Nel 2016, abbandonata la tentazione di presentarsi da indipendente, praticamente Trump si candidò tra i repubblicani per sgominare il suo stesso partito prima ancora che quello democratico. Eppure secondo alcuni era un predestinato al successo finale: qualche mese prima dell’inizio della vittoriosa campagna presidenziale (più precisamente in luglio), cominciò infatti a circolare in rete (e non è escluso che fosse stata fabbricata ad arte) una didascalia di una celebre foto dell’11 marzo 1987 che ritraeva l’allora presidente Reagan mentre stringeva la mano a Trump, in visita alla Casa Bianca con la moglie di allora.
La didascalia era una frase che sarebbe stata pronunciata proprio da Reagan dopo l’incontro con il bilionario: una frase in cui egli sfoderava una virtù profetica degna di padre Pio, capace, com’è noto, di vedere in Karol Wojtyla un futuro papa solo guardandolo in faccia: quasi allo stesso modo a Reagan sarebbe bastata una semplice stretta di mano per capire che chi gli stava davanti un domani avrebbe abitato al n. 1600 di Pennsylvania Avenue. Nerone, invece, era tutt’altro che un predestinato, ma la sua strada fu spianata spietatamente dall’ambizione materna. Predestinata, semmai, era proprio lei, Agrippina, però a morire in modo violento: sapeva, infatti, per aver consultato un’astrologa, che il prezzo da pagare per assicurare il potere assoluto al figlio sarebbe stato la morte per mano sua.
In fondo, però, Nerone aveva solo un ostacolo tra lui e il potere (al netto della stessa presenza materna): e cioè il fratellastro Britannico, figlio dell’imperatore Claudio, secondo marito della madre. Molti di più, al contrario, erano gli impedimenti sulla strada di Trump: gli altri 16 candidati delle primarie repubblicane.
L’Armata Brancaleone è un’anabasi (genere letterario nel genere letterario) in un Medioevo di miserabili. Se la storia antica e la classicità negli anni ’60 erano materia da kolossal, Brancaleone dimostra che i secoli bui, con la loro barbarica promiscuità, la loro rude, primitiva e a volte triviale asperità erano piuttosto roba degna di un poema eroicomico.
Il tema ricorrente del cinema monicelliano, la banda di amici senza arte né parte o irrecuperabili nella loro condizione di vinti dalla vita (si vedano anche Isolitiignoti e Amicimiei), si innesta qui in una narrazione da romanzo cavalleresco ma senza gloria. Protagonista è un avventuriero, Brancaleone, di oscure origini: aspira a diventare cavaliere ed è la parodia del capitano di ventura. È a lui, ardimentoso senza la tempra del temerario e scavezzacollo timorato del pericolo, che spetta attraversare, a capo di una piccola congrega di raccogliticci, i quattro momenti che riepilogano il Medioevo.
C’è in realtà un’incursione barbarica che precede e chiama la sua comparsa in scena. La traversata di Brancaleone vera e propria inizia dalla tenzone con un cadetto bizantino, rappresentante di un potere politico-militare prezioso, raffinato ma impotente di fronte all’egemonia germanica dei tempi e sempre più confinato in una gabbia di arcani intrighi.
Poi si viene a contatto con la peste (o almeno col suo spettro), la seconda causa di spopolamento dell’epoca dopo le scorrerie germaniche. Brancaleone la affronta nella cittadina-fantasma che conquista senza colpo ferire, arroccata in cima a un’altura.
Quindi ecco l’incontro con la brigata di penitenti, guidata da un predicatore errante e incamminata verso la Terra Santa. E infine, arrivati al mare (momento culminante anche nell’Anabasi che è prototipo di tutte le anabasi), l’apparizione della flotta dei Saraceni (gli incursori che facevano concorrenza ai Germani): una tribù araba con cui presto si finì per indicare tutti gli arabi. È già tempo di crociate, e di scollinare verso il basso Medioevo.
Brancaleone da Norcia interpretato da Vittorio Gassman (Ansa)
La recente epidemia di coronavirus raccontata secondo i dettami della storiografia classica.
A circa cinque mesi dal suo insediamento, il secondo governo Conte dovette affrontare una delle crisi più dure mai affrontate dall’Italia dalla fine della II guerra mondiale, un’epidemia di polmonite atipica diffusasi dalla Cina. Chi si sforzava di trovare un precedente paragonabile alla situazione determinatasi a partire da febbraio 2020 doveva forse risalire agli anni del terrorismo, ma messi al confronto con i morti e la paura provocati dal virus persino le bombe, i rapimenti e le bande armate sembravano ricordi di un’epoca ben più lieve. La verità è che, per come il governo affrontò l’emergenza, ai più anziani parve piuttosto di rivivere insieme, nello stesso momento, i lunghi mesi dell’austerità economica dovuta alla crisi petrolifera e quelli delle stragi nelle vie e nelle piazze.
Di un’influenza mortale simile alla Sars, la malattia che aveva terrorizzato il mondo nel 2003, si era iniziato a parlare da fine dicembre 2019: si trattava di un’epidemia estesasi con velocità impressionante in tutta la Cina a partire dalla regione dell’Hubei, dove i primi infettati, forse dei contadini, avevano mangiato le carni di un serpente a sua volta contagiato da un pipistrello. Dalla Cina il virus partì alla conquista dell’Estremo e del Medio Oriente, dell’Africa, dell’Oceania, dell’Europa centro-settentrionale e in seguito dell’America. In particolare sembra che in Europa il punto di irradiazione sia stato una città della Germania o una stazione sciistica dell’Austria. Tuttavia in Italia molti sospettarono sin dall’inizio che i principali focolai potessero essere indigeni, non importati: quelli della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna, dove l’epidemia esplose violenta, improvvisa e inaspettata. E in effetti fu proprio il Nord, fino alla Toscana e alle Marche, a sopportare il carico maggiore del danno e della tragedia: nel resto del Paese i contagi furono sporadici e tutt’altro che massicci, e la paura superò di gran lunga il pericolo reale. Ma a diffonderla in modo incontrollato contribuì proprio il governo che, chiaramente impreparato di fronte a un pericolo del tutto nuovo, pensò bene di estendere a tutta l’Italia, indiscriminatamente, misure adeguate alle aree dove l’emergenza era massima. La quarantena dei cittadini che, in Lombardia e in Veneto e altrove nel Nord, doveva servire a non affollare i posti nelle terapie intensive di quelle regioni, ormai vicine al collasso, fu applicata, con lo stesso rigore, agli abitanti di tutte le altre regioni d’Italia, anche quelle del Centro e del Sud, nel timore che un contagio con le stesse caratteristiche di quello lombardo-veneto potesse dilagare anche nel resto del Paese. La valutazione, dettata da una prudenza legittima ma forse eccessiva, non teneva infatti conto del fatto che, soprattutto in Lombardia, il virus aveva attecchito con dinamiche particolarissime e tempistiche assai lunghe, probabilmente più lunghe di quanto lo scoppio estemporaneo dell’epidemia potesse far credere. Alcuni si spinsero addirittura a pensare che l’inizio dell’incubazione del virus nelle terre padane potesse essere quasi coevo all’inizio dell’epidemia in Cina.
Tra un’angoscia crescente – giustificata anche da un numero di morti che, di giorno in giorno, non accennava a scendere e raggiunse il picco tra marzo e aprile – e un crescente bombardamento di notizie impressionanti, informazioni banali quando non erano vaghe e sciocchezze inaudite – veicolate, come sempre, dalla televisione e dal web –, il governo Conte decretò la paralisi delle attività commerciali e lavorative e del traffico umano dal 9 marzo fino al 3 aprile, salvo poi prolungarlo fino al 15 aprile e infine a tutto il 3 maggio.
È necessario innanzitutto distinguere la critica dalle critiche. La prima è un’attività di analisi che consiste nell’applicare i dati dell’ingegno alla comprensione del genio (come nel caso della critica d’arte e di quella letteraria) oppure nell’offrire una lettura problematica di un tema di dibattito sociale o culturale (in questo senso la critica si può applicare a ogni altro ambito di discussione/riflessione intellettuale). Appare evidente che la ricerca problematica del critico si propone sempre di aprire il tema a nuove chiavi di lettura, o a punti di vista differenti rispetto a quelli già tentati in precedenza. La summa dell’attività analitica del critico si esprime nel giudizio (critica, in fondo, significa proprio arte, o scienza, del giudizio), che può essere chiaramente positivo o negativo. Il giudizio del critico è comunque pur sempre un giudizio commisurato ad una valutazione di merito (il cosiddetto giudizio di valore), quindi le eventuali “stroncature” o “condanne” sono sempre da mettere in relazione a posizioni che non hanno nulla a che vedere con sentimenti o passioni personali.
Nella teoria più generale delle scienze, la critica sta un gradino sotto la brabeutica e un gradino sopra la nomistica. Si potrebbe dire, anzi, che la brabeutica (brabeus = arbitro) è la superscienza che comprende tutte le scienze del giudizio. Di esse, la critica è certamente la prima in graduatoria, perché è finalizzata a formulare un giudizio analitico e razionale, fondato su una tesi intellettuale di spessore. Alla triade dei tre ambiti classici della critica (l’aristarchica o critica letteraria, la callistratica o critica d’arte e la plutarchica o critica musicale) si sono aggiunte, col passare del tempo, la critica gastronomica, la critica di moda e la critica del design.
Subito dopo la critica viene, nella piramide della brabeutica, la nomistica, che si può definire più semplicemente “scienza dell’opinione”. Suo sinonimo è oietica (da oiesis, “opinione”).
E che cos’è un’opinione? È un giudizio erroneo, fallace, fondato non su una tesi intellettuale forte (a differenza del giudizio critico), ma proprio su una valutazione del tutto passionale. L’opinionista spesso sembra un critico, ma nei suoi giudizi c’è sempre una maggiore (e più evidente) dose di faziosità. Gemella della nomistica è la geustica, altra declinazione del giudizio che si fonda sulla contrapposizione tra mi piace/non mi piace (geusis = gusto).
Teoricamente qualsiasi testo può essere dettato. Ma un dettato propriamente detto è un testo non troppo lungo (siamo nell’ordine di grandezza della mezza pagina di quaderno) che si presta, per il suo placido ritmo descrittivo e la limpidezza lessicale, a essere declamato in modo chiaro e con calma, e con altrettanta calma a essere trascritto parola per parola. Ciò che, per i piccoli scolari, è un’esercitazione di ortografia, per gli scrittori è un importante esercizio di calligrafia: li allena, infatti, ad acquisire quella grazia stilistica che li rende più leggibili ma anche più udibili. Il soggetto per un testo che diventerà un dettato dev’essere per forza semplice e piacevole: per esempio la descrizione di un arcobaleno, di una tavola imbandita, di un parco giochi, o un raccontino in forma dialogica.
La versione ideale, in fondo, non è molto diversa da un dettato (anche come lunghezza, naturalmente). Può essere quindi un brano descrittivo, il più delle volte; se non lo è, è un brano narrativo a contenuto favolistico, aneddotico, biografico, cronachistico, oppure un brano riassuntivo. Se la caratteristica fondamentale di un dettato dev’essere la facilità di ascolto e di trascrizione, quella di una versione non può che essere la facilità di trasposizione. (ImmaginetrattadaSkuolasprint.it.)
A lui il calcio, in fondo, non interessava. Ma agli altri sì. E se portava in classe articoli di cartoleria che avessero qualche riferimento anche solo velato con la serie A, e magari con qualche squadra avversaria, erano guai.
Era il 1987. La Juventus era appena passata dalle capaci mani di Trapattoni a quelle altrettanto collaudate di Marchesi, ma il periodo d’oro sembrava finito. Platini era all’ultimo anno in bianconero: avrebbe chiuso col botto la carriera alla corte dell’Avvocato?
Appariva grigio l’orizzonte per gli juventini, non solo a Torino; le cricche degli amanti della zebra in tutta Italia si erano messe ad odiare colui che stava definitivamente oscurando l’astro di Roi Michel. Era un argentino, giocava per il Napoli già da qualche anno, era fresco di trionfo al Mundial messicano e il suo nome faceva venire a molti, molti avversari s’intende, la voglia improvvisa di scoprirsi grecisti: volentieri, infatti, ne riconducevano la radice a quella parola greca che significa “finocchio”, con tutte le possibili allusioni a margine. In realtà, però, egli era decisamente un maschione e per i vesuviani addirittura un dio; loro erano certi, sin dal 1984, che avrebbe finalmente dato al Napoli quelle soddisfazioni che neppure Achille Lauro e la sua megalomania erano riusciti a dar loro. E questa certezza, all’indomani della vittoria al mondiale, cresceva: per loro il fatto che si chiamasse Maradona significava soltanto che era il Fidippide che, prima o poi, li avrebbe portati a tagliare il traguardo dello scudetto alla fine di un’esaltante corsa.
Ma tutte queste cose a Luigi, che a quel tempo portava il fiocchetto rosso, non importavano assolutamente. La mamma gli comprava i quaderni e i quadernoni con l’immagine di Maradona e la scritta “Numero 10” senza fare particolarmente caso al soggetto: se anche ce ne fossero stati con Platini, glieli avrebbe ugualmente comprati.
Ma non ce n’erano, di Platini. Non ce ne erano stati mai, neppure negli anni dall’82 all’86, quelli dei grandi trionfi bianconeri trapattoniani, che avevano visto proprio il transalpino tra i protagonisti.
Invece per Maradona, tutto ad un tratto, sembrava essere scoppiata una sorta di mania collettiva: di sicuro l‘argentino poteva giovarsi del fatto di giocare in una piazza calorosa come Napoli, popolata di un’umanità per natura espansiva ed entusiasta. Torino, invece, con la sua aristocratica freddezza, sembrava sempre gioire con distacco delle sue vittorie, forse anche perché erano la routine. Eppure, se la Juventus era la più amata in tutto lo stivale, lo si doveva anche al fatto che, a partire dagli anni ’70, aveva imbarcato nel suo undici tanti giocatori di origine meridionale, un po’ come la Fiat stava facendo nei suoi stabilimenti. E dunque al fatto che, attorno alla Juventus, nascevano tante juventinità parallele, ad uso e consumo delle varie latitudini nazionali. Squadra di massa, una sorta di Dc del pallone, come poche altre (Milan, Inter). Il Napoli, invece, squadra identitaria, con un seguito concentrato nella sua area geografica ed antropologica, poteva ancora raccogliere il suo tifo intorno ad un’idea di comunità. E che comunità.
Ma non mancavano le exclaves. Specie in quel periodo. Fanatiche, certo, però con gioia, con allegria, senza prepotenza. Molte juventinità che gravitavano intorno alla Juve, invece, erano fanatiche in senso deleterio. Proprio come capitò di sperimentare in prima persona al povero Luigi, scambiato, con i suoi quaderni, per il rappresentante di un’exclave partenopea.
Le 9.00. Un’ora prima della ricreazione, era arrivato il momento di correggere gli esercizi di italiano. Luigi, intrepido, sfoderò dalla cartella il suo bravo quadernone “Numero 10”. Non era la prima volta che Raffaele e Massimiliano, la cricca dei centurioni zebrati, lo vedevano sul suo banco; ma forse si auguravano che potesse essere una meteora, un’apparizione-lampo, magari un incubo. Non passava giorno che i loro occhi si iniettassero un po’ più di sangue, alla vista di quel malefico strumento di scrittura. “Ma è davvero lui?” “Come si può accettare che davanti al nostro sguardo sfili una tal figura cotanto vergognosa?” Finita la verifica degli esercizi, che ognuno faceva direttamente dal suo posto recitando ad alta voce quanto, la sera prima, aveva svolto sul quaderno, la maestra, al suono della campanella, diede lo sciogliete le righe tanto atteso; e fu allora che i vendicatori bianconeri decisero di agire.
Luigi aveva appena fatto in tempo a prendere da una tasca della cartella i crackers, salati in superficie, che si portava ogni mattina. Mangiava solo i crackers a scuola, nient’altro. Però non aveva ancora liberato il banco, e dunque il suo Maradona era ancora lì. “La vuoi smettere di portare quello sgorbio a scuola?”, fece Raffaele. “Ci sono anche i Masters”, fece Massimiliano con la sua erre moscia da sicario gentile. “Tu non ne sai niente di calcio”, continuò Raffaele, “quindi non puoi sapere che pazzia stai facendo a portarti quell’essere a scuola. Non te lo puoi immaginare”. Ė vero: a quei tempi a Luigi il calcio non interessava ancora. Dei tornei di football si sarebbe innamorato più tardi, e per una via assolutamente obliqua. Per un motivo, che era connesso in profondità con la sua passione per gli itinerari turistici italiani, per il sistema-Bell’Italia, : il contesto storico, geografico ed artistico richiamato dalle città di appartenenza delle varie squadre, dunque, in un certo senso, lo sfondo culturale del campionato, la tavolozza di campanili e blasoni la cui configurazione non era mai uguale, da una stagione all’altra. Un itinerarium mutans, ed era così in serie A come in serie B e in serie C e nelle serie minori. Ė questo il bello del calcio in fondo per chi, come Luigi, sapeva ricondurre tutto il suo reale al bello della storia. Ma il pallone di cuoio e il mondo che vi si rifletteva, in quel momento, non erano ancora entrati nel suo sistema di interessi. I tempi non erano ancora maturi. Ora, era destinato a vederne solo la faccia idiota, intollerante.
Disgraziatamente, sul banco, oltre al quaderno incriminato, Luigi aveva lasciato anche una penna Bic. Nera. Raffaele la afferrò, con quella stessa voracità con cui, tante volte, nelle merende fatte a casa di Luigi, aveva impugnato il cucchiaino per darci dentro con le Coppe Bianche. Era così, Luigi, silenzioso a scuola e parco (solo crackers), per poi trasformarsi in un principe gaudente a casa, felice di condividere con gli amici i suoi squisiti snack. Ma capita a tutti i principi felici di essere spesso generosi anche con chi non se lo merita: dov’era, adesso, la scioglievole dolcezza della panna e il gusto del cioccolato, venato di mistero? Quale delizioso scrupolo poteva frapporsi tra l’ospite sedotto, ingolosito da quella magnificenza, e un atto di giustizia barbara nei confronti del suo tifo inutile?
Tolse il cappuccio della Bic, e minacciosamente ne orientò la punta verso il quaderno. Verso una parte precisa di esso, il volto di Maradona. Quindi con la mano libera se lo trascinò alla portata della penna, e questa si abbatté sulla deprecata effigie con la violenza di una folgore. Di un uragano. Come una tromba d’aria che si ripete, rovinosamente compiaciuta, in mille circonvoluzioni. Che cosa resta di un campo di grano degli Stati Uniti dopo un tornado? Forse più o meno quello che restava di Maradona sulla copertina del quadernone di Luigi: una devastante visione, desolante. Dov’erano finite le gambe, le braccia del Pibe de Oro? Il volto riccioluto del giocoliere terribile? Non c’era rimasto che uno strano tronco azzurro con la scritta “Buitoni” a lasciar intuire la figura che poteva trovarsi rappresentata, su quella copertina. I tratti somatici del fuoriclasse argentino erano stati completamente risucchiati da nembi neri come la pece, inesorabili mulinelli di odio. Talmente calcati da lasciare un’impronta evidente, indelebile, anche sulla prima pagina del quaderno. “Maradona non ci piace”, fece Massimiliano come un notaio che prende atto dell’avvenuta esecuzione. “E tu non sai neanche chi è”, ribadì Raffaele. I due uscirono per qualche minuto dall’aula, felici come partigiani di Platini. Luigi rimase immobile, con le dita della destra che gli stavano sudando, mentre continuavano a stringere la carta plastificata dei crackers. Era colpa della Juve?, si chiese. Era colpa di Maradona?
La dipnologia è (o potrebbe essere) la scienza dei pasti. Appartiene a quella categoria di scienze che con teminologia mendeleviana potremmo chiamare eca-, quelle, cioè, che non esistono effettivamente ma di cui si può intuire l’esistenza. I pasti si dividono in principali e aperitivi: – sono pasti principali quelli in cui si preparano cibi in quantità e qualità adeguate alla nutrizione generale dell’organismo nell’arco della giornata (pranzo, cena ma presso molti popoli anche colazione); – sono pasti aperitivi quelli imbanditi in funzione dell’attesa del nutrimento del pranzo o della cena (colazione, merenda).
Per pasto si intende un rito aggregativo in cui si apparecchia un certo numero di cibi, perlopiù cucinati. È proprio l’aspetto del cibo cucinato a distinguere il pasto vero e proprio dal semplice eso (esus), che è la consumazione di cibo non cotto o preconfezionato. In questo senso la merenda è spesso più un eso che non un pasto vero e proprio.
Varia poi in base alla cultura alimentare dei popoli e delle epoche l’individuazione, nell’ambito dei pasti principali, del pasto cardinale, il più importante di tutti. Il mondo greco-romano era dipnocentrico, cioè considerava la cena il pasto più importante, il mondo anglosassone invece è acratismatocentrico, poiché per gli inglesi e gli americani è la colazione a fare la parte del leone nell’alimentazione della giornata, mentre l’Italia e i popoli mediterranei sono fondamentalmente aristocentrici, cioè danno al pranzo un rilievo particolare.