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1. Cosa c’è di più eroico per un grande generale che cadere sul campo, insieme ai suoi uomini? E, a maggior ragione, cosa c’è di meglio per un generale perdente che non sopravvivere alla sua disfatta, e morire anzi nel modo che sarebbe più degno di un generale a cui spettano gloria e allori? In questi casi estremi, non c’è differenza tra perire per mano dei nemici, vincitori sul campo, o perire di propria mano, avendo la coscienza che la propria immagine e la propria fama sono compromessi per sempre.2. La prima sorte capitò ad uno dei più famosi generali americani della guerra di secessione, il generale George Armstrong Custer; la seconda, invece, è quella a cui andò coraggiosamente incontro un generale romano dell’epoca di Augusto, Quintilio Varo. I loro nomi sono collegati, indelebilmente, al ricordo di due grandi, per molti versi inopinate, disfatte militari.3. Figlio di nobili romani decaduti l’uno, e cioè Varo, figlio di operai di origine tedesca l’altro, e cioè Custer, entrambi riuscirono ad emergere nell’ambiente militare (e, nel caso di Varo, anche in quello politico) grazie all’appoggio di amici influenti. Se, però, nel caso di Varo il discorso sembra più plausibile (la gens Quinctilia aveva pur sempre fatto la storia di Roma alle sue origini, anche se dal 453 nessun suo membro ricopriva più una carica pubblica), nel caso di Custer la cosa appare meno chiara. Il fatto è che, così come Varo, nato, appunto, da una famiglia patrizia e in un municipio importante della Gallia Cisalpina come Cremona, ebbe nell’imperatore Augusto in persona un sostegno fondamentale per il suo cursus honorum, così Custer, venuto alla luce in un oscuro villaggio dell’Ohio, New Rumley, e proveniente da una famiglia che aveva l’unico merito di essere molto numerosa, trovò in un deputato liberale, John Bingham, un decisivo benefattore.4. A dire la verità nel caso di Varo, oltre al blasone, contò anche una buona dose di intelligenza opportunistica: in definitiva, infatti, la sua abilità fu quella di allinearsi al nuovo corso augusteo al momento giusto, cioè in occasione del magnum discrimen di Azio; e questo avvenne non senza che lui entrasse in disaccordo col padre, Sesto Quintilio Varo, il cui sentire politico, al contrario, si mantenne fino all’ultimo più vicino agli ambienti dell’opposizione. Il fondatore dell’impero premiò l’allineamento del giovane Varo, facendogli intraprendere una carriera con cui si sarebbe preso la soddisfazione togliere parecchia polvere alla bacheca di famiglia. E consentendogli di divenire, senza alcun dubbio, uno degli uomini più potenti del nascente principato, nella sua primissima fase.5. Nel 22 a.C., a 25 anni, Varo fu questore in Acaia, il nome che i Romani avevano dato alla Grecia, quindi edile, pretore, propretore, e nel 13 a.C., addirittura console, al fianco di quello che sarebbe divenuto l’imperatore dopo Augusto, Tiberio Claudio Nerone. E c’è di più: solo un anno prima aveva sposato Vipsania Marcella, la figlia del vero n. 2 del principato, il super-ammiraglio Marco Vipsanio Agrippa. Quanto al suo futuro, insomma, Varo poteva davvero ritenersi dentro una botte di ferro.6. Per quanto riguarda Custer, ammesso nel 1857, all’età di diciotto anni, alla prestigiosa accademia militare di West Point, non si distinse per nient’altro che per la montagna di note di demerito che riuscì a collezionare. Poi, nel 1861, allo scoppio della guerra civile americana, poté beneficiare del fatto che la sua classe era stata diplomata con un anno di anticipo rispetto al programma normale (ciò avvenne perché l’esercito del Nord aveva urgentemente bisogno di altri ufficiali da gettare nella mischia). Così, a 22 anni, più o meno alla stessa età in cui Vro aveva iniziato il suo cursus honorum, Custer poté iniziare il proprio cursus nei quadri dell’esercito unionista. Senza merito, però: difatti si era classificato ultimo nel suo corso, e nessun intervento amico poté risparmiargli, allora, una gavetta più lunga di quella dei suoi colleghi. La sua fortuna, in realtà, e questo sempre grazie a Bingham, era già stata quella di non venire espulso dall’accademia. Così, giunto (o per meglio dire catapultato) in prima linea, Custer divenne del 2° Cavalleria, quindi collaboratore del generale McClellan, che comandava l’Armata del Potomac, e in seguito tenente sotto Pleasanton, per cui comandò un’armata di cavalleria. Proprio Pleasanton, colpito dal suo offensivismo spinto che aveva portato a numerose vittorie (ma a costo di parecchie perdite umane), decise di conferirgli il brevetto di generale, anche se limitato al periodo del conflitto. Era il 1862: un anno dopo Custer impalmò mrs. Elizabeth Bacon.7. La fortuna di Varo non collassò neppure dopo la morte di Agrippa, avvenuta l’anno successivo al matrimonio della figlia. Oltre a quella di Augusto, infatti, adesso Varo poteva contare anche sull’amicizia di Tiberio, grazie alla quale ottenne, tra il 7 e il 6 a.C., il proconsolato d’Africa, a cui seguì un incarico da propretore in Siria, che a quei tempi comprendeva anche la Palestina (lo scorporo avvenne un anno dopo la fine del mandato di Varo, nel 4 a.C.). E proprio ad una ferocissima repressione di una rivolta giudaica è legato il ricordo del periodo della propretura di Varo in quella regione. Morto Erode il Grande, la Palestina (detta nel suo complesso anche Giudea, nonostante si chiamasse Giudea anche una sua regione in particolare), era stata divisa in parti eguali tra i suoi figli: ad Erode Antipa, secondo il testamento paterno, sarebbe andato il trono della Galilea, ad Erode Archelao quello della Giudea e della Samaria, ad Erode Filippo l’Iturea e la Traconitide. Ben presto, però Antipa si ribellò a questa spartizione sostenendo che il testamento del padre, scritto quando egli era ormai in fin di vita e non del tutto lucido, non rispecchiava realmente le sue intenzioni. Rivendicava a sé anche il trono della Giudea, sicché il fratello Archelao fu costretto ad andare a Roma per far valere le sue ragioni. Per il periodo in cui questi sarebbe stato assente dalla Giudea, Augusto decise di nominare come suo supplente un procuratore, Sabino. I Giusei, però non potevano tollerare la presenza di un’autorità straniera e si sollevarono in armi:per salvare la vita a Sabino fu necessario l’intervento dalla Siria dello stesso Varo, che, sedata la rivolta, volle dare una punizione esemplare al popolo giudaico facendo crocifiggere circa 2000 uomini.Così, nel sangue, finì l’esperienza di Varo da legato in quella turbolenta area mediorientale. Egli era ormai alla fine del suo mandato, e, data la fama sinistra che in quei luoghi era riuscito a guadagnarsi, Augusto si guardò bene dal rinnovarglielo. Varo cambiò così completamente scenario, e, dopo un periodo di riposo parzialmente orzato, divenne governatore militare in Germania. Era il 7 d.C.8. Terminata la guerra civile con un grado, quello di generale, che di certo non rispecchiava la sua reale perizia di stratega, nel 1866, scaduto il brevetto che gli aveva assegnato Pleasanton, Custer si vide cadere tra capo e collo una fulminea e violentissima retrocessione a capitano: questo era l’effetto della riforma dell’esercito voluta dal nuovo presidente Andrew Johnson, e che aveva tarpato le ali a tutti i “diplomati sul campo” del conflitto. Per Custer ci voleva ora una nuova occasione per riprendere la sua scalata ai vertici dell’esercito. Accantonata l’idea di lasciare la patria per entrare nell’esercito messicano, la nuova svolta nella sua vita gli fu offerta da un suo ex superiore, il generale Sheridan, che lo segnalò per il comando di un reggimento in via di formazione, il 7° Cavalleria di stanza in Kansas. Il suo compito sarebbe stato quello di divenire una delle avanguardie nella guerra contro le comunità pellirosse. Era una vera e propria “armata Brancaleone”, fatta di soldati raccogliticci e provenienti perlopiù dalle comunità di immigrati dall’Europa, armata male ed addestrata peggio. Eppure, per cementarne lo spirito di corpo, Custer, ora tenente colonnello, non trovò niente di meglio da fare che predisporre, spesso e volentieri, punizioni severe e disumane: Il pretesto per usare la mano pesante era dato dal fatto che Custer si poneva come esempio ai suoi uomini nelle esercitazioni più dure, e chi non riusciva a fare come lui non era degno di servire sotto di lui.9. Ma il massimo della crudeltà egli lo toccò con le decimazioni di massa seguite alle diserzioni che si ebbero durante una breve campagna punitiva contro i Cheyenne, coordinata con gli uomini di Winfield Hancock, al comando di un’altra avanguardia anti-indiani. Si era trattato di un’operazione priva di utilità perché i Cheyenne in quel momento erano in pace, dunque servì solo a creare un nemico che non c’era.La condotta dracontiana di Custer, se ne fecero scemare la popolarità preso i suoi uomini, di certo lo resero inviso anche a molti suoi colleghi e, unita ad altre voci, come quella che nel corso della spedizione aveva abbandonato i suoi uomini per raggiungere la moglie,lo trascinarono alla core marziale. Questa, riunitasi nel 1867 a Fort Leavenworth, sospese Custer dal grado e dall’attività militare per un anno. L’anno dopo ci volle un nuovo intervento di Sheridan per reintegrarlo nuovamente in servizio.10. Impopolare lo diventava ogni giorno di più, anche Varo, alla guida della sua nuova provincia, con le sue pratiche vessatorie e le sue ruberie nei confronti delle popolazioni locali. Dopo due anni di malgoverno esse, guidate dai Cherusci del re Arminio, si sollevarono contro le legioni romane. Lo scontro decisivo avvenne nella selva di Teutoburgo: era l’8 settembre del 9 d.C. Ma non fu un attacco frontale quello dei Germani : fu un’imboscata, al passaggio delle tre legioni di Varo che stavano per raggiungere i quartieri d’inverno. Il governatore, colpito a freddo, ebbe però la necessaria lucidità per riorganizzare l’esercito e condurlo a riparare in un’area più sicura, vicina a quella dell’agguato. La resistenza si protrasse per altri due giorni, fino all’11 settembre, e non senza vani tentativi di rompere l’accerchiamento: ma niente fu coronato dall fortuna, le perdite sul campo per le legoni augustee furono enormi e i Germani, traboccanti di furore antiromano, incrudelirono persino sull’ultimo dei loro prigionieri. I pochi a cui fu risparmiata la vita vennero scambiati con prigionieri germanici. Ma Varo non vide tutto questo: si era suicidato, insieme ad altri ufficiali suoi luogotenenti, per non sopravvivere all’onta.11. Il 7° Cavalleria, nuovamente con Custer in testa, era pronto a combattere per togliere ai Lakota e ad altre popolazioni indigene alleate il possesso delle Colline Nere, una catena di montagne che si estende dal Dakota al Wyoming. Era considerata sacra da molti pellirosse ma lì, tra quelle montagne, era stata segnalata anche una cospicua presenza di oro. Per i pellirosse dunque non restava che imbracciare i fucili e combattere nuovamente contro i bianchi, coalizzandosi sotto la guida dei Sioux di Toro Seduto.All’inizio dell’offensiva, Custer si trovava a Washington per deporre davanti ad una commissione d’inchiesta su un caso di approvvigionamenti militari negati. Questo polverone aveva contribuito a sollevarlo lui stesso, chiamando in causa anche il presidente Grant, e non gli risparmiò qualche noia giudiziaria. Poi, al suo ritorno in campo, egli dovette ingoiare un altro rospo e constatare che doveva dividere il comando del 7° con un altro ufficiale, il generale Terry: a lui era stata affidata la colonna del Dakota.Il carattere di Custer tollerava poco e male la spartizione di autorità: molti ricordavano una circostanza, avvenuto alcuni anni prima, in cui aveva lasciato massacrare una sua colonna per il solo fatto che chi la comandava aveva preso di sua iniziativa la decisione di avanzare, come se volesse mettere in ombra l’autorità del suo superiore e rubargli gloria. Quindi si poteva immaginare che, alla prima occasione, Custer avrebbe disobbedito agli ordini per fare di testa sua.12. Ciò avvenne puntualmente: dopo essersi rassegnato a fare da ruota di scorta al maggiore Reno nell’avanzata verso i torrenti Rosebud e Hode, dove i nemici avevano posto il loro accampamento, Custer, che il 21 giugno 1876 aveva ripreso la guida del suo reggimento, trasgredì l’ordine di Terry di aspettare la sua colonna nel punto dove era arrivato il maggiore e proseguì l’avanzata nei giorni successivi fino al 25 quando, prendendo a pretesto il fatto che un gruppo di Sioux aveva intercettato un distaccamento dei suoi uomini, diede l’ordine di attacco, alle 12.00. I pellirosse, che erano tutt’altro che impreparati all’attacco (in realtà, anche loro, parallelamente, stavano avanzando alla volta dei bianchi) e per giunta erano in superiorità numerica. Dallo scontro, avvenuto non lontano dalla località di Little Big Horn, non uscì vivo nessun uomo di Custer, compreso lui stesso; si salvò solo un trombettiere, ma per il semplice fatto che era stato inviato a cercare rinforzi, prima che la battaglia vera e propria avesse inizio.13. Quando a Roma giunse la notizia della disfatta di Teutoburgo, l’imperatore Augusto, com’è noto, cadde in uno sconforto profondo. Per alcuni giorni dimenticò addirittura di tagliare la barba e i capelli, tormentato dal pensiero di aver perso così tanti uomini, e in un colpo solo; e, lancinato da tale pensiero, continuava a ripetere senza sosta: “Quintilio Varo, restituiscimi le mie legioni”.Del suo corpo i Romani poterono seppellire solo la testa.Miglior sorte toccò invece a Custer, la cui salma poté essere seppellita integra nell’accademia di West Poni, dove aveva ricevuto la sua formazone militare. Pare che gli Indiani non abbiano infierito sul suo corpo perché, in realtà, non l’avevano riconosciuto: infatti non credevano che ad assalirli a mezzogiorno potesse essere stato lui, abituato semmai ad attaccare alle prime luci dell’alba.14. Varo e Custer si devono considerare entrambi due personaggi la cui fortuna, sia in ambito politico che militare, fu senz’altro maggiore del loro effettivo valore; entrambi poterono contare, nel corso della loro vita e delle loro carriere, su amici e aiuti importanti. Un altro tratto in comune tra di loro è la tendenza ad una certa severità, anche per sopperire, probabilmente, ad una mancanza di vera autorità. Tuttavia l’irruenza che è propria di Custer non si ritrova in Varo; e mentre per il generale americano la fine fu probabilmente la giusta conseguenza dell’ennesima mossa avventata, Varo la trovò in uno scenario a cui non era del tutto preparato; così, disperando della salvezza, e senza essere riuscito a trovare la morte sul campo di battaglia, se la diede da sé.
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Nei paragrafi che seguono cercheremo di mettere in evidenza i tratti in comune, nella biografia e nel pensiero politico, tra due statisti che furono gli artefici dell’accrescimento della potenza dei regni che servirono come ministri, l’uno, Cavour, facendo del suo, il Piemonte, il primo nucleo di uno stato unitario, l’altro, Richelieu, trasformando la Francia nello stato-guida della politica dell’Europa occidentale almeno fino al congresso di Vienna, una volta risolta a favore di essa la rivalità con la Spagna.
1.Fu soprattutto l’impronta materna ad essere determinante nella formazione di Armand Jean du Plessis, futuro cardinale di Richelieu, nato a Parigi il 9 settembre 1585: a cinque anni egli perse il padre, e fu così educato dalla madre, Susanne de La Porte, finché non fu inviato al Collegio di Navarra, all’età di nove anni, e poi all’accademia militare.
2.Destinato così alla carriera militare, Richelieu fu tuttavia costretto a diventare vescovo dopo la rinuncia del fratello, Alphonse, a reggere l’episcopato a Luçon per entrare nei certosini; tale episcopato, infatti, era prerogativa dei du Plessis dal 1584. Ma il periodo in cui fu porporato a Luçon fu per Richelieu più un periodo di aprendistato da uomo di Stato che non di Chiesa. Risale a questo periodo quello che può considerarsi il manifesto del suo pensiero politico, le Briefves Instructions, dove emerge la concezione della Chiesa come braccio spirituale dello Stato, da cui essa riceve, di riflesso, il riconoscimento della propria autorevolezza temporale.
3.Nel 1610 il vescovo non riuscì ad ottenere i voti necessari per diventare delegato della provincia di Bourdeaux all’assemblea del clero a Parigi: il suo scopo, infatti, era quello di affacciarsi sullo scenario politico della capitale. Ma il suo sbarco in essa era solo rimandato di quattro anni: nel 1614, infatti, fu eletto deputato del clero del Poitou agli Stati Generali. Ma fu negli anni immediatamente precedenti che Richelieu aveva già maturato la sua scelta di parte decisiva: quella di schierarsi con la regina Maria de’ Medici, da poco vedova di Enrico IV e reggente per il piccolo Luigi XIII, nel braccio di ferro con le famiglie blasonate di Francia, i Condé, i Bouillon, i Nevers. Il suo lealismo dinastico lo premiò: grazie all’appoggio e alla simpatia della regina madre, Richelieu divenne suo consigliere particolare, anche se era sempre Concini a mantenere un ruolo di primo piano, e fu prima sul punto di diventare ambasciatore straordinario in Spagna, e poi, liberatosi il posto di segretario di Stato per la guerra, riuscì ad ottenere tale carica. Era il 1616.
5.Tuttavia se la madre era una grande sostenitrice di Richelieu, non così sembrava esserlo il figlio Luigi XIII: egli infatti mal sopportava la reggenza della regina genitrice, e ancor meno l’influsso dell’italiano Concini, che ella aveva rifiutato di estromettere dal ruolo di ministro per far posto al principe di Condé, come si era addivenuto in sede di accordo con i principi del sangue. Nel suo cuore aveva fatto breccia un altro favorito, Charles d’Albert de Luynes, e a lui sacrificò l’entourage materno. Lo stesso Concini fu fatto uccidere il 24 gennaio 1616; ad affiancare il Luynes, quindi, tornavano in auge a corte vecchi collaboratori del padre, Brulard, Villeroy, Jeannin e Du Var.
6. Frattanto Richelieu era stato confinato ad Avignone, dove conduceva studi di teologia. Ma il suo esilio non doveva durare molto. De Luynes in politica interna e Brulard nella gestione dell’inizio della guerra dei Trent’anni stavano scontentando un pò tutti: la regina madre, che si era ritirata a Blois, gli ugonotti, che mal tolleravano il mantenimento della linea di amicizia con la Spagna e con l’Austria, e, nello stesso tempo, l’ambigua terzietà tra Lega Cattolica e Unione Protestante, ed erano ormai sul punto di scatenare una guerra civile dopo la spedizione-crociata nel Bearnese e gli episodi repressivi avvenuti a Parigi; e infine la stessa Spagna, che fu scaricata per mezzo degli accordi con i Savoia e Venezia per la guerra in Valtellina. In questo quadro sembrò al ministro che l’unica mossa per ristabilire l’unità del paese fosse il riappacificamento tra Anna de’ Medici e il figlio, e che la persona più adatta in tale operazione fosse Richelieu. Questo fu forse l’unico atto meritorio del gabinetto de Luynes, e non gli valse a salvare la poltrona: dopo la pace di Angers, che sancì in effetti il ritorno di Anna a corte, l’ex favorito del re e Broulard furono esonerati; nuovo primo ministro fu La Vieuville, che strinse alleanza con gli Olandesi e, facendo sposare la sorella del re al principe del Galles, aprì anche all’intesa con l’Inghilterra. Richelieu, che nel 1622 era diventato cardinale, fu cooptato nel nuovo governo, e due anni dopo fu chiamato a presiederlo.
7.Sin da subito Richelieu dimostrò che la chiacchierata equivicinanza di De Luynes tra le due parti religiose, cattolici e protestanti, non sarebbe stata abbandonata nella sua politica. Più che la Spagna, con cui, nonostante le frizioni, l’allenza veniva mantenuta, il nemico in quel momento era l’Austria. Fu proprio per contrastare l’espansione degli Asburgo austriaci che il cardinale inviò in Valtellina nel 1625 un contingente di calvinisti svizzeri: ciò però non gli impedì di stipulare con la Spagna, un anno dopo, il trattato di Monzon, che riconosceva sì il possesso della Valtellina ai Grigioni, ma nello stesso tempo la poneva sotto il controllo delle truppe pontificie.
8.Frattanto il partito cattolico, che appoggiava le pretese al trono del fratello del re, Gastone d’Orleans, e si raccoglieva attorno al fior fiore della stratiocrazia di Francia, aveva ordito una congiura contro Richelieu, di cui erano a parte, addirittura, la vecchia regina madre ed Anna d’Austria, moglie del re. La reazione del cardinale fu energica quanto spietata: una volta scoperti, i capi della macchinazione furono giustiziati senza colpo ferire. Tra essi c’erano il maresciallo d’Ornano e i conti di Montmorency-Bouteville e di Chalais. Tuttavia le nuove incombenze sul fronte interno non gli permettevano di andare ulteriormente a fondo nelle implicazioni della stessa famiglia reale nell’attentato. Gli ugonotti, infatti, si sentivano minacciati dall’asse tra la Francia e la Spagna e, per difendere i loro possedimenti in terra transalpina, si erano rivolti all’Inghilterra. Da Londra, in effetti, era già pronto un piano di sbarco, con una flotta di cento unità al comando del duca di Buckingham, un lord cresciuto in Francia, a suo tempo fautore del matrimonio tra la sorella di Luigi XIII e Carlo I e, secondo Dumas, sentimentalmente vicino alla stessa regina Anna. Sempre Dumas racconta che Richelieu avrebbe incaricato una spia al suo servizio, Milady De Winter, spregiudicata figura femminile, di uccidere il duca, ma, seppure la donna non riuscì a portare a termine questa missione, la campagna fu comunque vittoriosa e fulminea. Buckingham fu bloccato da all’isola di Rhé e dovette ritirarsi; sulla terraferma fu Richelieu in persona ad assumere il comando delle operazioni, e in poco tempo arrivò sotto le mura di La Rochelle, che capitolò. Una seconda flotta di sostegno agli ugonotti dall’Inghilterra, sempre guidata da Buckingham, non arrivò mai: nel frattempo infatti il duca era stato ucciso, all’uscita del parlamento, da Giovanni Felton, un ufficiale, o secondo altri un oscuro marinaio, che aveva militato ai suoi ordini, e che con il suo gesto pensava di rendere giustizia alla patria, ferita dai rovesci subiti a causa della sua politica a partire dalla spedizione nel Palatinato, nel 1625.
9.La campagna contro gli ugonotti, per incamerarne i territori e difendere l’integrità della Francia minacciata dall’ombra inglese, proprio come ai tempi della guerra dei Cent’anni, non poteva certo dirsi una prova di riavvicinamento al partito cattolico. Anzi, la successiva guerra di successione, di nuovo in Italia, fu l’inizio di una fase di raffreddamento dei rapporti con la Spagna. Era accaduto che il ducato di Mantova e del Monferrato fosse rimasto senza il suo titolare, e che gli Spagnoli, che a quel tempo erano i padroni assoluti nella penisola, candidassero come nuovo duca Carlo Emanuele I di Savoia. Ma la Francia, così come non aveva potuto permettere un rafforzamento della presenza asburgica in Valtellina, così’ doveva evitare quello dell’egemonia spagnola in un altro territorio strategico della Lombardia, e così contrappose al duca di Savoia Carlo I di Gonzaga Nevers. Per le operazioni su questo fronte Richelieu scelse ancora una volta di assumere il comando in prima persona, come a La Rochelle. La contemporanea alleanza militare con la Svezia consentiva di aprire un fronte simultaneo contro Austria e Impero. Tale alleanza venne stipulata a Barwalde il 13 gennaio del 1631, e comortava cheil re Gustavo II Adolfo non creasse problemi alla politica richelievana di combattere contro l’imperatore ma senza ledere i singoli stati tedeschi, di cui invece il cardinale teneva a rispettare l’autonomia con la prospettiva di farseli alleati. Ma Gustavo, col pretesto di sventare le mire bellicose della Baviera contro il suo paese, di cui aveva avuto sentore, tradì in sostanzai patti e, invasa la regione, si spinse fino a Monaco. Provvidenziale fu quindi la sua morte in battaglia a Lutzen per non creare ulteriori imbarazzi nella politica filotedesca di Parigi. Intanto la campagna d’Italia si concludeva con fulmineo successo, giacché proprio il pericolo svedese aveva costretto l’imperatore a ritirasi in buon’ordine sul fronte italiano, e Carlo I acquisiva il ducato, ma le tensioni con la Spagna si erano ormai irreversibilmente acuite, e il partito cattolico, in patria, tornava a macchinare drastici cambiamenti.
10.Per la verità, stavolta, la fazione di Gastone d’Orleans si era sollevata anche e soprattutto in conseguenza della decisione di Luigi XIII di esiliare definitivamente Maria de’ Medici. La fiducia del re nel suo cardinale si era ormai fatta granitica, ed egli potè così sventare anche più agevolmente una nuova congiura contro di lui.
11.Se fino alla morte di Gustavo Adolfo di Svezia a Lutzon, Asburgo d’Austria e casa di Spagna erano stati due nemici sostanzialmente separati, nel 1635, quando Madrid intervenne in favore dei cugini austriaci, essi divennero infine un sol nemico. Allo scontro frontale con la Spagna, del resto, Richelieu si preparava da tempo, dedicandosi a curare il consolidamento della flotta di Francia, sul modello di quella olandese. Ciò, comunque, rispondeva anche alle nuove esigenze di espansione coloniale, dal momento che proprio in quegli anni la Francia, ai possedimenti nordamericani, affiancava il Senegal in Africa e la Guyana e l’isola di Saint Kitts nelle Indie Occidentali; a questi territori si sarebbero poi aggiunte, nel 1635, Guadalupa e Martinica.
12.La prima fase del nuovo conflitto volse decisamente in favore della Spagna, grazie a condottieri del calibro di Ottavio Piccolomini, del cardinale-infante Ferdinando, di Giovanni Werth e di Tommaso di Savoia. Di fronte all’invasione del suolo francese e all’occupazione di Compiègne il cardinale spronò gli altri vescovi di Francia a farsi baluardi armati in didfesa della patria, e così si ebbero eroici episodi come quello dell’arcivescovo di Bourdeaux che guidò la stenua resistenza all’avanzata nemica. Lo stesso Richelieu dirigeva intanto la difesa di Parigi e la sua riorganizzazione militare, tutto questo non senza i consueti costi fiscali, che, come già in altre occasioni create dalla sua politica, alimentavano il malcontento popolare. Unito ad esso, era già alle porte una nuova sollevazione aristocratica, ordita ancora da Gastone e capeggiata dal marchese de Cinq-Mars, favorito del re, e dal presidente del Parlamento, de Thou, quando la riscossa nazionale si concretizzava con la riconquista di Corbie e i successi di Bernardo di Sassonia-Weimar, che riprendeva Brisach, e di Vittorio Amedeo I di Savoia, che sbaragliava gli Spagnoli a Mombaldone, in Italia. Vittorio avrebbe voluto spingersi anche in Liguria, ma gli mancò l’appoggio proprio della Marina francese.
13.C’era chi accusava Richelieu di adottare criteri spudoratamente nepotistici nella scelta degli omini che ne avrebbero raccolto l’eredità; era vero in effetti che quelli che sarebbero stati i comandanti in capo dell’esercito francese erano suoi parenti, il duca d’Enghien, marito di una nipote, e il marchese di Brézé, che era suo nipote diretto. Ma per assicurare la continuità del suo operato alla guida dello stato Richelieu non volle altri che un prelato di origine abruzzese, Giulio Mazzarino, che ai suoi occhi si era segnalato durante la guerra del Monferrato, come ambasciatore pontificio. In seguito, designato nunzio straordinario in Francia, fu naturalizzato francese, cambiando così il nome da Mazzarino in Mazarino e, per interessamento dello stesso Richelieu, divenne porporato, benché in realtà non fosse neppure sacerdote. La sua successione era ormai un fatto compiuto allorché lo statista, con la sua solita draconiana inesorabilità, fece arrestare, processare da una corte marziale de Cinq-Mars e il suo gruppo di cospiratori.
14. Fu questo il suo ultimo atto da primo ministro, nel settembre del 1642: poco dopo, alle soglie del Natale di quell’anno, si spegneva senza affanni vinto dal male che lo minava da tempo.15. Camillo Benso di Cavour nacque a Torino il 10 agosto 1810, dal marchese Michele e da Adele de Sellon, calvinista poi convertitasi al cattolicesimo. Il padre in gioventù prestò servizio nell’esercito napoleonico, poi dopo essersi fatto massone, divenne una delle personalità di spicco della politica municipale torinese. Consigliere dal 1819, fu sindaco nel 1833, e, negli ultimi anni, precisamente dal 1825 al 1847, vicario di polizia.
Per sei anni, dal 1820 al 1826, il giovane Camillo frequentò l’Accademia militare, e fu anche paggio di Carlo Alberto. Al termine del corso divenne ufficiale del genio, e fu a Torino, Ventimiglia, Exilles e Genova. Qui venne a contatto e sposò le idee dell’insurrezione carbonara del 1830, in stridente contrasto con la divisa da lui portata.
16.Fu così che fu richiamato a Torino dai suoi superiori, e tenuto in punizione al forte di Bard dalla primavera all’autunno del 1831. Fu durante la prigionia che egli maturò la convinzione che la vita da ufficiale non faceva per lui: e nel novembre di quello stesso anno, col permesso della famiglia, si congedò dalle armi.
17. Egli poté così dedicarsi alla gestione delle tenute agricole di famiglia a Leri, anche come membro dell’Associazione agraria dal 1842, e a viaggiare nei paesi culla del liberalismo europeo, la Svizzera, la Francia e l’Inghilterra. Nel frattempo fu anche sindaco di Grinzane che da lui avrebbe preso il nome di Cavour.
18. All’attività di amministratore affiancò, copiosa, quella d pubblicista: nel 1847 co-fondò con Cesare Balbo e diresse Il Risorgimento. Se oggi chiamiamo la stagione della storia italiana che portò alla sua unificazione con questo nome lo dobbiamo proprio a quella testata. Da tale tribuna chiese e ottenne la concessione della costituzione da parte di Carlo Alberto.
19.Sull’onda della battaglia statutaria combattuta dalla colonne del suo giornale, Cavour fu eletto alla Camera piemontese nel 1848 e nel 1849.
Cooptato nel governo liberal-conservatore di D’Azeglio, divenne prima ministro dell’Agricoltura e poi delle Finanze: in entrambi i settori la sua missione fu quella di modernizzare il Piemonte e di portarlo ad essere al passo con gli stati più progrediti d’Italia, a livello di infrastrutture e di politiche agricole, campo quest’ultimo in cui aveva, certo, una lunga e affermata esperienza.
20. All’interno del parlamento subalpino il ministro era diventato il punto di riferimento di una corrente di destra moderata e modernista, disposta a dialogare con la sinistra democratica di Urbano Rattazzi per un compromesso di programma finalizzato alla formazione di una nuova area di governo, Tale compromesso, passato alla storia col nome di “connubio”, portò in effetti di lì a poco Cavour alla guida del suo primo esecutivo. E con lo stesso Rattazzi come ministro di Grazie e Giustizia la sua azione non tradì sicuramente l’indirizzo riformista che ne era alla base: tra i primi provvedimenti di esso all’interno ci furono infatti una proposta di legge per i matrimoni civili e l’incameramento dei beni degli ordini religiosi, nel 1855. Questo fu anche l’anno che offrì, finalmente, al regno del Piemonte, l’occasione di essere riconosciuto sullo scenario internazionale come uno stato degno di avere rapporti da pari a pari con gli stati europei e da peso più decisivo nella poltica euro-mediterranea. Storicamente, infatti, a differenza delle altre regioni italiane, il Piemonte, sin dall’Alto Medioevo, non aveva mai subito dominazioni in successione, ma si era sempre mantenuto autonomo, grazie ai conti e ai duchi di Savoia, che, provenienti dalla Francia, avevano pian piano allargato il loro dominio in quella che era stata l’antica terra delle tribù liguri dei Levi, di Victimuli, dei Leponzi, dei Taurini e egli Statielli. Sicché, in un panorama di stati e staterelli in cui era più o meno forte l’influenza dei dominatori stranieri di turno, a parte lo Stato Pontificio, il Piemonte aveva sempre dato l’impressione, e questo era anche un suo vanto, di essere un vero e proprio stato sovrano, proprio come Francia, Inghilterra e Spagna, di dimensioni minuscole rispetto a questi ultimi, ma assolutamente tale. Convinzione di Cavour era che il regno di Sardegna dovesse prendere più decisamente coscienza di questo, e farsene carico per risolvere a tutto vantaggio della propria espansione la lotta per la liberazione dell’Italia, che non poteva più essere lasciata in mano alle società segrete e ai tentativi romantici e isolati di redimere la patria; la strada, del resto, era già aperta, l’ammirazione dei patrioti per il coraggio e la generosità del Piemonte di Carlo Alberto nella prima guerra di indipendenza aveva tolto molti sostenitori al sempre fecondo partito di Mazzini, l’ideologo dell’Italia unita e repubblicana il cui insegnamento continuava a spingere gli ardimentosi al sacrificio.
21. L’ingresso ufficiale del governo di Torino nella causa dell’Italia libera e indipendente fu la costituzione della Società nazionale nel 1857: si trattava di uno schieramento politico e civile molto trasversale, in quanto comprendeva moderati, cattolici, liberali, progressisti, ex mazziniani, che aveva lo scopo di supportare un orientamento filo sabaudo nel processo di unificazione. Dal drenaggio della Società nazionale le file dei mazziniani uscirono definitivamente esauste, quello che Cavour desiderava: in quello stesso anno si concluse tragicamente l’avventura dell’ultimo mazziniano, Carlo Pisacane.
Nel 1855, si diceva, la Turchia aveva chiesto l’aiuto dei principali stati europei contro la Russia che minacciava la Crimea, una regione dell’impero ottomano, e l’Inghilterra chiese al Piemonte un corpo ausiliario di mercenari; ma Cavour s’impuntò, pretendendo che l’aiuto piemontese sarebbe stato offerto solo a patto che il regno sabaudo venisse riconosciuto come alleato alla pari di Francia e Inghilterra, e che gli fosse concesso di inviare sul teatro di guerra quindicimila soldati. Naturalmente, più del prestigio derivante dall’azione militare, che in realtà sarebbe stata ausiliaria a quella degli stati più grandi, per il governo di Torino contava la possibilità di ottenere la consacrazione europea del Piemonte come stato- guida in Italia.
22. Il congresso di Parigi dell’anno successivo fu per Cavour la cornice per definire alcuni assi internazionali che avrebbero assicurato al regno dei Savoia l’espansione in Italia. Non solo quello con la Francia, che, date le comuni mire antiaustriache, sembrava avere effetti più prossimi, ma, più a lungo termine, quello con l’Inghilterra, il cui appoggio marittimo sarebbe stato fondamentale in un’eventuale spedizione contro il sud e il regno di Napoli.
Per l’accordo con la Francia di Napoleone III, che doveva portare ad una guerra congiunta contro l’Austria, e probabilmente, nella mente dello statista, anche a semplificare la questione di un’eventuale annessione di Roma – praticamente dal 1849 la Città Eterna era una sorta di protettorato francese -, Cavour andò personalmente a trovare l’imperatore nella stazione termale di Plombieres. Le cronache riportano che abbia tentato di stimolarne l’amicizia anche con forme di maggiore allettamento, non ultima la seduzione della contessa di Castiglione, ma le linee guida, in buona sostanza, furono tracciate in un giorno di autunno del 1858 in quel luogo di soggiorno e di cura.
23.L’obiettivo massimo del conflitto era la conquista del Veneto e della Lombardia: in realtà fu raggiunto solo quello minimo, ossia l’annessione della seconda regione, perché, proprio quando le cose sul campo sembravano volgersi per il meglio, Napoleone III a sorpresa sospese le operazioni e concluse un armistizio con l’Austria, a Villafranca. Quella fu forse la prima volta nella sua vita in cui Cavour si sentiva offeso e tradito: per protesta contro questa condotta bellica, e valutando che il suo governo fosse impotente di fronte alla piega presa dagli eventi, si dimise e lasciò il governo al generale Lamarmora, colui che al regno sabaudo aveva dato lustro in Crimea, con i suoi bersaglieri. Era il 1859. Meno di un anno dopo il re lo richiamò al suo posto. Cavour di buona lena si rimise al lavoro, confortato anche dai segnali che provenivano dal granducato di Toscana e dalle terre pontificie più settentrionali, dove gli esponenti della Società nazionale avevano guadagnato le popolazioni alla causa sabauda, e reso maturo il terreno per il plebiscito. Così, infatti, avvenne l’unione al regno di Sardegna di Toscana, Emilia, Romagna e Umbria.
24.Ma i tempi ora sembravano maturi anche per la conquista del regno meridionale. Cavour accettò che Garibaldi, il generale giramondo iscritto alla Società nazionale ma da sempre di ferventi sentimenti mazziniani, capeggiasse alla volta della Sicilia un corpo di volontari, poco più di un migliaio, solo a patto che la sua fosse un’azione in stretto collegamento con quella delle truppe di Cialdini, che si sarebbero ricongiunte alle sue una volta completata la conquista delle regioni adriatiche. Più di ogni altra cosa lo rassicurava la garanzia della flotta inglese in funzione di copertura, com’era già stato evidentemente concordato sin dal 1856. Secondo Cavour la parte garibaldina dell’impresa in effetti avrebbe potuto dirsi già conclusa a Calatafimi e con la presa di Palermo; la risalita dello Stretto e l’arrivo in Campania, con lo sbaragliamento delle truppe borboniche al Volturno che spalancava le porte di Napoli, per quanto fossero sviluppi preventivati, scombussolavano ormai seriamente i piani. Gli sembrò allora opportuno e urgente far muovere lo stesso re Vittorio Emanuele, per ottenere dal generale vittorioso la ratifica dei nuovi domini,e insieme per inviatralo ad arrestarsi congratulandosi per i successi già colti. Frattanto l’esercito dei Savoia al comando di Cialdini toglieva al dominio papale le Marche e batteva i borbonici in Abruzzo, dove Garibaldi non era ancora arrivato.
25.Adesso, dopo la fine di questa campagna, se c’era qualcuno deluso e amareggiato era proprio Garibaldi: egli avrebbe di sicuro puntato su Roma per conquistarla con le armi, cioè appunto quello che Cavour temeva nelle sue intenzioni. Dopo la scottatura dell’accordo con la Francia, infatti, egli aveva rinunciato del tutto ad un’azione di forza per arrivare al cuore dello Stato della Chiesa, ma immaginava, probabilmente, una sorta di annessione su base plebiscitaria, o un accordo diplomatico col pontefice stesso. La formula, di sua elaborazione, che lo tormentava in quei giorni era quella della “libera Chiesa in libero Stato”, in base alla quale le istituzioni riconoscevano l’autorità e la supremazia spirituale della Chiesa in cambio della deposizione, da parte del papa, del potere temporale, che restava prerogativa unica e indiscussa dello Stato. Sognava uno Stato postunitario laico, dunque, così avanzato da rispettare e da emancipare da privilegi medievali il potere ultraterreno della Chiesa. Ma il papa Pio IX rifiutò questo principio, così come rifiutò di riconoscere la legittimità del nuovo Stato peninsulare.
26.A Cavour, comunque, restava poco tempo per poter digerire questo rifiuto. L’iperattività sfibrante – o una nuova, stroncante, crisi malarica, dal momento che Cavour conviveva da sempre con una forma di malaria, contratta quand’era giovane nelle risaie di famiglia nel Vercellese – lo portava ad ammalarsi all’improvviso, nella primavera del 1861, pochi mesi dopo che la stagione risorgimentale si era conclusa, solennemente, con la proclamazione dell’unità d’Italia in una seduta straordinaria del parlamento piemontese, divenuto adesso parlamento italiano. Qualche mese più tardi chiese e ottenne che esso proclamasse Roma capitale, perché questo atto sancisse l’impegno, per i governi italiani a venire, a trasformare in realtà quello che sembrava ancora impossibile. E così il torinocentrico statista si spegneva da ardente romanocentrico, il 6 giugno 1861.
27. Gli successe Bettino Ricasoli, il promotore del plebiscito con cui la Toscana si era unita al regno di Sardegna. Ma cadde un anno dopo per l’opposizione di Rattazzi, agli occhi dei più una sorta di successore predestinato di Cavour, ansioso di salire al governo e risolvere la questione romana per via garibaldina. Ma, bloccato dal solito veto della Francia, tutto quello che seppe fare fu di arrestare l’avanzata dal sud di Garibaldi, che, passata la Sicilia, era giunto in Aspromonte: l’eroe dei due mondi finì addirittura in carcere per qualche tempo. Dopo la parentesi Farini, già collega di Cavour nel governo d’Azeglio, fu la volta di Marco Minghetti, cavouriano di ferro dall’Emilia. Questi con la convenzione di settembre del 1864 sembrò rinunziare, per il momento, a Roma capitale d’Italia, accettando di spostare la sede del governo da Torino a Firenze in cambio di un disimpegno militare francese a presidio di Roma, che però sarebbe stato annullato in caso di azione di forza volta a rompere l’accordo. Una mossa attendista abbastanza degna di Cavour, a dir la verità: ma nell’immediato, proprio nel momento in cui appariva un passaggio rilevante per uscire dallo stallo di un nodo insolubile, il documento vincolava subdolamente l’Italia ad un immobilismo ancora più controproducente. Così l’esecutivo Minghetti non sopravvisse al suo atto più importante: l’opposizione insorse e, dopo Lamarmora, la conquista del Veneto e un secondo gabinetto Ricasoli, tornò Rattazzi, che si ritrovò ad avere nuovamente a che fare con Garibaldi. Era evidente che mai come stavolta era necessario tenere a freno il decisionismo del vecchio ma irriducibile generale nizzardo, proprio per evitare che Napoleone mettesse in atto la minaccia di far tornare a Roma le sue truppe di custodia al papato. Ciò che effettivamente avvenne, non appena da Parigi si ebbe sentore di una nuova iniziativa armata in camicia rossa: i francesi si reinstallarono più saldi di prima e Garibaldi concluse la sua corsa a Mentana. Ma fu il suo ultimo tentativo in tal senso: amareggiato dalla doppiezza del governo per cui combatteva, e anche scosso dal sacrificio dei fratelli Cairoli, rinunciò per sempre a guidare la conquista della fatidica città. A Mentana, praticamente, si chiudeva anche la seconda e ultima esperienza di gabinetto di Rattazzi, ancora una volta per colpa di Garibaldi: accusato, infatti, come già nel 1862, di non aver saputo evitare che l’azione garibaldina diventasse motivo di imbarazzo internazionale, il primo ministro dovette dimettersi, proprio come allora.
28.Il destino voleva comunque che la vicenda capitolina alla fine si risolvesse senza Garibaldi, eppure nel modo che Garibaldi avrebbe voluto. Ciò però fu reso possibile anche dagli sconvolgimenti che stavano avvenendo oltralpe: nel 1870 la disfatta di Napoleone III nella guerra franco-prussiana aveva portato infatti alla caduta dell’Impero e all’instaurazione della Repubblica. Ne approfittò il governo italiano per affrettarsi a dichiarare ormai nulla la convenzione: esso era ora guidato, dopo Menabrea, l’ex ministro della Marina di Cavour, da Giovanni Lanza, che con Cavour era stato invece ministro dell’Istruzione. Questi inviò sotto le porte di Roma il IV Corpo d’armata dell’esercito, al comando di Raffaele Cadorna: era il 20 settembre 1870, e la Città eterna veniva annessa al Regno d’Italia come sua nuova capitale. Meno di un mese dopo Garibaldi partiva per la Francia per la sua ennesima esperienza da capitano di ventura: guidare un esercito di volontari a difesa della neonata Repubblica.
Così, dopo altri dieci anni e sei esecutivi di diversa guida, anche se rimaneva sostanzialmente irrisolto il problema di come impostare il rapporto tra Stato italiano e Chiesa, poteva dirsi concluso quel programma che Cavour, se soltanto avesse avuto qualche anno di vita in più, avrebbe saputo portare a termine da solo e, probabilmente, in minor tempo.
29.C’è subito da notare che sia Richelieu che Cavour abbandonarono la carriera nell’esercito per darsi alla politica, l’uno però, e cioè Richelieu, controvoglia, e difatti anche da statista mantenne sempre un’impostazione da stratega, l’altro, invece, Cavour, perché non vi era portato per natura. Di conseguenza, mentre Cavour preparò sempre le sue guerre e le sue spedizioni militari a tavolino, Richelieu non disdegnò, spesso, di condurle anche in prima persona sul campo. Quanto all’indole politica, mentre Richelieu fu un ottimo statista ma un pessimo amministratore, Cavour fu lodevole ad entrambi i livelli, anzi si può dire che si formò politicamente proprio come amministratore agricolo e locale. Il cardinale, inoltre, tendeva a farsi molti nemici, e non esitava, all’occorrenza, ad adoperare il pugno duro e ad essere repressivo, di qui la macchinazione di molte congiure contro di lui; lo statista piemontese, invece, anche in questo caso preferiva risolvere le sue divergenze sopra il tavolo, o comunque mai al di fuori di un leale confronto parlamentare o di gabinetto. Ma quando si trattò, per la ragion di Stato, di contrastare gli interessi territoriali di una potente fazione religiosa o dello stesso clero romano, furono entrambi inflessibili, al di là del loro modo di concepire la relazione tra Stato e Chiesa: relazione che per Richelieu, come si è detto, era fondata sull’ancillarità della Chiesa rispetto allo Stato, per Cavour invece sull’equilibrio determinato dalla delimitazione condivisa delle sfere di competenza dell’uno e dell’altra. Entrambi, poi, dovettero subire quello che si può chiamare il tradimento di un alleato, la Svezia per Richelieu, la Francia per Cavour. Nel regolare la questione della propria successione, però, Richelieu fu senz’altro superiore a Cavour: mentre infatti il francese pensò per tempo ad assicurarsi un entourage che potesse garantirgli la prosecuzione della sua opera, in primis il cardinale Mazzarino, Cavour non pensò, ma in effetti non ne ebbe neppure il tempo, a fare altrettanto; e così lasciò che a raccogliere la sua eredità non fosse un successore designato, ma tanti successori, che con Cavour avevano certamente condiviso tante esperienze e momenti parlamentari e politici, ma a lui erano sempre stati secondi. -
1. La passione di Horatio Nelson per il mare fu precocissima: già a dodici annifece il suo primo viaggio sulla nave Reasonnable accompagnato dallo zio materno, che era un ufficiale di marina. E a venti anni appena fu nominato capitano di brigantino; la prima fregata della sua carriera di ufficiale fu la Hinchinbrook, a cui seguì la Albemarle, entrambe di 28 cannoni. A capo della fregata Boreas portò a termine il suo primo incarico di rilievo con una serie i operazioni di presidio sulle coste delle Indie Occidentali. Ma fu alla testa dell’Agamemnon che iniziò, per così dire, la sua sfida infinita coi francesi. La comandava ai tempi della guerra dei Sette anni e vi fu confermato fino ai tempi della prima campagna d’Italia di Napoleone: nelle azioni di tale campagna, lui che era un leone dei mari dell’India, si trovò a che fare per la prima volta con le rotte tirreniche, e soprattutto con l’assedio per mare di un territorio. C’erano da espugnare le coste della Corsica, l’isola che che prima apparteneneva al re di Sardegna ma dal 1768 era passata alla Francia, un anno prima che il suo grande nemico Napoleone nascesse: durante la presa di Calvi Nelson perse l’uso dell’occhio sinistro. Questo aspetto della vulnerabilità fisica è un aspetto ricorrente nella vita di guerriero del nostro, sin dai tempi in cui era mozzo nei brigantini: si dice addirittura che nei primi anni in cui era a bordo, una malattia così forte lo costrinse ad abbandonare il suo posto e a tornare indietro, ma dopo un breve periodo di licenza, a dispetto del proprio indebolimento e pur essendo profondamente provato nel fisico, lo si vide tornare ai suoi ranghi, come sempre sarebbe accaduto, sostenuto da un superiore senso del dovere nazionale. Furono anzi proprio le menomazioni sul campo gli strumenti più affidabili per scalare i gradi della gerarchia stratiocratica, come ben si vide all’indomani della battaglia di Santa Cruz de Tenerife, contro la flotta franco-spagnola, nella quale aveva subito la perdita anche del braccio sinistro: proprio per l’eroismo dimostrato in quell’occasione fu investito della carica di contrammiraglio e di lì a poco ammiraglio, e così, con quell’aspetto per metà da pirata e per metà da mostro marino, a bordo della Vanguard fu incaricato di dare la caccia ai francesi, che con la loro flotta, in partenza da Cadice, si apprestavano a partire per una spedizione in Egitto, così da bloccarla: come un fantasma, Nelson seguì le navi francesi giorno e notte, ostacolato perdipiù da rotte insicure o studiate con perigliosa improvvisazione, ininterrottamente dal 7 giugno 1798, finché non le sorprese impreparate nelle acque di Abukir, il 10 agosto, con quella stessa inesorabile imprevedibilità che anche Drake fece valere sull’Invincible Armada. E forse Nelson non si sarebbe fermato a brindare alla disfatta dei napoleonici, ma avrebbe anche liquidato il resto dei superstiti, se il senso della nazione non lo avesse distolto per compiere un lavoro sporco, forse il meno eroico: restaurare la dignità dei Borboni nel regno di Napoli. Ideò egli stesso il piano per stringere i francesi che occupavano Napoli nella morsa micidiale: l’esercito napoletano avrebbe affrontato in campo aperto i nemici, mentre la flotta inglese li avrebbe sostenuti sulle coste una volta presa Livorno. Ma la sconfitta dei borbonici mandò all’aria il piano, e Nelson si trovò costretto a mettere al riparo i reali a Palermo, mentre egli stesso liberava Napoli dagl’insorti bombardandola e assediandola dal porto, aspettando l’arrivo del cardinale Fabrizio Ruffo da sud. La conclusione di quest’impresa, per la quale avrebbe poi ricevuto il titolo di barone di Bronte dalla corte di Capodimonte, fece però esecrare il nome di Nelson da tutti i liberali italiani: contrariamente, infatti, a quanto i capi rivoluzionari avevano pattuito con Ruffo, per sé e per gli altri resistenti trincerati nei castelli di Napoli, e cioè la resa in cambio della clemenza dei restauratori, il comandante inglese, con l’appoggio di Ferdinando IV, li fece arrestare a tradimento ed impiccare; tra essi c’erano Mario Pagano, il “padre costituzionalista” della Repubblica, e il duca Francesco Caracciolo, a capo della flotta repubblicana. Ma proprio l’assedio di Napoli lo aveva distolto da ordini superiori, la copertura di Minorca da un attacco franco-spagnolo: ne seguirono delle tensioni con il vertice dell’ammiragliato britannico, presto appianatesi con il ricongiungimento di Nelson a lord Keith, comandante in capo della flotta nel Mediterranea, e la sua promozione a vice-ammiraglio in subordine ad Hyde Parker. Ancora una volta, dunque, il “fattore-Parker”, per così dire, fu determinante nel destino di Nelson: come, infatti, ai tempi in cui serviva a bordo del brigantino Bristol, l’ammiraglio Peter Parker lo prese a benvolere tanto da conferirgli per la prima volta nella sua vita il grado di commander, così ora la stima che riuscì a guadagnarsi da parte di sir Hyde riuscì a fargli ottenere il comando dell’assedio di Copenaghen, attuato allo scopo di colpire la flotta più potente, quella danese, della lega dei Neutri, la quale, partita per garantire la libera navigazione delle navi degli stati neutrali, cioè né schierati con Napoleone né con l’Inghilterra, dalla pretesa inglese di esercitare su di esse il diritto di visita, aveva poi finito per accogliere al suo interno la stessa Francia. Fu una disfatta evitata più che una reale vittoria, dal momento che l’abilità di Nelson fu nel salvare il maggior numero di navi possibili dalla resistenza danese che ne aveva disalberato la gran parte, ma l’eco del suo coraggio gli valse il titolo di visconte e il ritorno al comando supremo, alla guida della Victory, per l’ultima sfida con i francesi. L’occasione buona gli si presentò quattro anni dopo i fatti di Copenaghen: lord Collingwood teneva ormai da più mesi sotto scacco a Cadice la flotta francese di Villeneuve che Nelson per due anni aveva pazientemente incalzato dai mari delle Indie Occidentali, dominio incontrastato degli inglesi, costringendola a ripiegare nel Mediterraneo; era questa l’opportunità migliore che si presentava a lord Nelson per ottenere un trionfo completo e forse definitivo sulla flotta di Napoleone, e, pur reduce da un periodo di inattività, si rimise baldanzoso al comando della sua flotta per cercare lo scontro frontale coi francesi nelle acque di Trafalgar. Qui nel furore delle polveri venne a morte, in modo eroico e certo degno della sua vita, colpito a morte alla colonna vertebrale. Ma era comunque riuscito a distruggere il nemico.
2.Lisandro dovette gestire la ricostruzione della potenza navale spartana che era stata annientata da Alcibiade nelle acque di Cizico. Ci riuscì consolidando la rete di contributi degli alleati lacedemoni e aprendo un rapporto di amicizia con Ciro il Giovane, sicché la vittoria di Nozio fu un banco di prova iniziale ma già entusiasmante di una perizia navale finalmente al passo con la grande tradizione peltastica di Sparta. Ma ad Egospotami, anziché una reale superiorità tattica, contò l’effetto-sorpresa, dal momento che gli Spartani colsero la flotta nemica assolutamente impreparata alla battaglia quando era già quasi alla fonda a riva. Questa vittoria segnò la fine dell’egemonia ateniese sulla Grecia e la fine di quella spartana: a rafforzamento della quale fu data carta bianca a Lisandro di imporre nelle varie città e rgioni governi di orientamento aristoratico retti perlopiù daclienti e amici personali del generale. A lungo andare però questi governi, per il loro carattere dispotico e sanguinario, resero insopportabile il giogo spartano, e provocarono nuovi rivolgimenti negli equilibri politici della penisola con il ritorno all’indipendenza di molte città, in primis Atene: di quest’odio dei Greci nei confronti di Sparta i re e gli efori non tardarono ad accusare Lisandro, che in realtà non aveva mai riscosso grandi simpatie con i metodi, da lui promossi, per installare i regimi vassalli.
Nel frattempo la morte di Ciro il Giovane e l’aperto atteggiamento antiellenico del nuovo re, Artaserse, avevano fatto mutare indirizzo anche agli Spartani nei confronti dei Persiani: paradossalmente però fu proprio il nuovo clima antipersiano che riportò in auge Lisandro, come ispiratore di una grande campagna panellenica contro l’impero di Persepoli, che sarebbe stata gestita dal nuovo re di Sparta, Agesilao, con l’appoggio strategico di dieci comandanti, tra cui egli stesso. L’avventura di Lisandro come comandante di terra in Persia fu però breve: ben presto scoppiarono nuovi disordini in Grecia, alimentati dai Tebani, e a sedarli fu designato proprio Agesilao con l’appoggio del re-collega rimasto a Sparta, Pausania. Lisandro aveva programmato che il suo esercito e quello del re dovessero ricongiungersi all’altezza di Orcomeno e affrontare insieme in campo aperto il grosso dell’esercito di Epaminonda: ma la sincronia non avvenne, a causa degli impedimenti incontrati dal sovrano, e Lisandro dovette soccombere da solo ad Aliarto all’urto della cavalleria tebana, trovandovi la morte.3.La prima differenza di fondo che si può individuare tra Nelson e Lisandro è che il primo divenne ammiraglio quando la potenza navale inglese era al suo culmine, Lisandro invece dovette quasi rifondare le basi della flotta spartana. Nelson era poi un guerriero di nave vero e proprio, mentre Lisandro, come tutti i generali spartani, era in grado di gestire una flotta come di gestire un esercito di terra, e a capo di esso perse la vita. Inoltre Lisandro era mosso al dovere da un’ambizione di potere eminentemente interiore, mentre sempre nelle azioni di lord Nelson vi fu una superiore considerazione dell’interesse nazionale. In più alimentò costantemente la passione bellica di Nelson l’esistenza di un nemico costante, i francesi e Napoleone, mentre i Persiani furono per Lisandro un nemico creato a bella posta per rientrare nei giochi del potere: ed in realtà la vera rivalità tra Sparta e Atene apparteneva forse alle generazioni anteriori alla guerra del Peloponneso, a Temistocle e a Leonida per intenderci. Un elemento di somiglianza importante può essere rintracciato nella strategia di consolidamento dell’egemonia della loro patria, pur se dettato da concezioni di spirito diverse: è comune infatti a entrambi lo sforzo di rafforzarla attraverso l’insediamento o il reinsediamento di regimi monarchici o aristocratici amici, come si vide fare a Nelson dopo Abukir a Napoli e a Lisandro in tutta la Grecia dopo Egospotami. Tutti e due, poi, ottennero il loro trionfo maggiore cogliendo di sorpresa il nemico, e morirono nel mezzo della battaglia, anche se in entrambi i casi l’esito si profilava già con chiarezza: nella direzione del trionfo per l’uno, in quello della disfatta per l’altro.