1. La passione di Horatio Nelson per il mare fu precocissima: già a dodici annifece il suo primo viaggio sulla nave Reasonnable accompagnato dallo zio materno, che era un ufficiale di marina. E a venti anni appena fu nominato capitano di brigantino; la prima fregata della sua carriera di ufficiale fu la Hinchinbrook, a cui seguì la Albemarle, entrambe di 28 cannoni. A capo della fregata Boreas portò a termine il suo primo incarico di rilievo con una serie i operazioni di presidio sulle coste delle Indie Occidentali. Ma fu alla testa dell’Agamemnon che iniziò, per così dire, la sua sfida infinita coi francesi. La comandava ai tempi della guerra dei Sette anni e vi fu confermato fino ai tempi della prima campagna d’Italia di Napoleone: nelle azioni di tale campagna, lui che era un leone dei mari dell’India, si trovò a che fare per la prima volta con le rotte tirreniche, e soprattutto con l’assedio per mare di un territorio. C’erano da espugnare le coste della Corsica, l’isola che che prima apparteneneva al re di Sardegna ma dal 1768 era passata alla Francia, un anno prima che il suo grande nemico Napoleone nascesse: durante la presa di Calvi Nelson perse l’uso dell’occhio sinistro. Questo aspetto della vulnerabilità fisica è un aspetto ricorrente nella vita di guerriero del nostro, sin dai tempi in cui era mozzo nei brigantini: si dice addirittura che nei primi anni in cui era a bordo, una malattia così forte lo costrinse ad abbandonare il suo posto e a tornare indietro, ma dopo un breve periodo di licenza, a dispetto del proprio indebolimento e pur essendo profondamente provato nel fisico, lo si vide tornare ai suoi ranghi, come sempre sarebbe accaduto, sostenuto da un superiore senso del dovere nazionale. Furono anzi proprio le menomazioni sul campo gli strumenti più affidabili per scalare i gradi della gerarchia stratiocratica, come ben si vide all’indomani della battaglia di Santa Cruz de Tenerife, contro la flotta franco-spagnola, nella quale aveva subito la perdita anche del braccio sinistro: proprio per l’eroismo dimostrato in quell’occasione fu investito della carica di contrammiraglio e di lì a poco ammiraglio, e così, con quell’aspetto per metà da pirata e per metà da mostro marino, a bordo della Vanguard fu incaricato di dare la caccia ai francesi, che con la loro flotta, in partenza da Cadice, si apprestavano a partire per una spedizione in Egitto, così da bloccarla: come un fantasma, Nelson seguì le navi francesi giorno e notte, ostacolato perdipiù da rotte insicure o studiate con perigliosa improvvisazione, ininterrottamente dal 7 giugno 1798, finché non le sorprese impreparate nelle acque di Abukir, il 10 agosto, con quella stessa inesorabile imprevedibilità che anche Drake fece valere sull’Invincible Armada. E forse Nelson non si sarebbe fermato a brindare alla disfatta dei napoleonici, ma avrebbe anche liquidato il resto dei superstiti, se il senso della nazione non lo avesse distolto per compiere un lavoro sporco, forse il meno eroico: restaurare la dignità dei Borboni nel regno di Napoli. Ideò egli stesso il piano per stringere i francesi che occupavano Napoli nella morsa micidiale: l’esercito napoletano avrebbe affrontato in campo aperto i nemici, mentre la flotta inglese li avrebbe sostenuti sulle coste una volta presa Livorno. Ma la sconfitta dei borbonici mandò all’aria il piano, e Nelson si trovò costretto a mettere al riparo i reali a Palermo, mentre egli stesso liberava Napoli dagl’insorti bombardandola e assediandola dal porto, aspettando l’arrivo del cardinale Fabrizio Ruffo da sud. La conclusione di quest’impresa, per la quale avrebbe poi ricevuto il titolo di barone di Bronte dalla corte di Capodimonte, fece però esecrare il nome di Nelson da tutti i liberali italiani: contrariamente, infatti, a quanto i capi rivoluzionari avevano pattuito con Ruffo, per sé e per gli altri resistenti trincerati nei castelli di Napoli, e cioè la resa in cambio della clemenza dei restauratori, il comandante inglese, con l’appoggio di Ferdinando IV, li fece arrestare a tradimento ed impiccare; tra essi c’erano Mario Pagano, il “padre costituzionalista” della Repubblica, e il duca Francesco Caracciolo, a capo della flotta repubblicana. Ma proprio l’assedio di Napoli lo aveva distolto da ordini superiori, la copertura di Minorca da un attacco franco-spagnolo: ne seguirono delle tensioni con il vertice dell’ammiragliato britannico, presto appianatesi con il ricongiungimento di Nelson a lord Keith, comandante in capo della flotta nel Mediterranea, e la sua promozione a vice-ammiraglio in subordine ad Hyde Parker. Ancora una volta, dunque, il “fattore-Parker”, per così dire, fu determinante nel destino di Nelson: come, infatti, ai tempi in cui serviva a bordo del brigantino Bristol, l’ammiraglio Peter Parker lo prese a benvolere tanto da conferirgli per la prima volta nella sua vita il grado di commander, così ora la stima che riuscì a guadagnarsi da parte di sir Hyde riuscì a fargli ottenere il comando dell’assedio di Copenaghen, attuato allo scopo di colpire la flotta più potente, quella danese, della lega dei Neutri, la quale, partita per garantire la libera navigazione delle navi degli stati neutrali, cioè né schierati con Napoleone né con l’Inghilterra, dalla pretesa inglese di esercitare su di esse il diritto di visita, aveva poi finito per accogliere al suo interno la stessa Francia. Fu una disfatta evitata più che una reale vittoria, dal momento che l’abilità di Nelson fu nel salvare il maggior numero di navi possibili dalla resistenza danese che ne aveva disalberato la gran parte, ma l’eco del suo coraggio gli valse il titolo di visconte e il ritorno al comando supremo, alla guida della Victory, per l’ultima sfida con i francesi. L’occasione buona gli si presentò quattro anni dopo i fatti di Copenaghen: lord Collingwood teneva ormai da più mesi sotto scacco a Cadice la flotta francese di Villeneuve che Nelson per due anni aveva pazientemente incalzato dai mari delle Indie Occidentali, dominio incontrastato degli inglesi, costringendola a ripiegare nel Mediterraneo; era questa l’opportunità migliore che si presentava a lord Nelson per ottenere un trionfo completo e forse definitivo sulla flotta di Napoleone, e, pur reduce da un periodo di inattività, si rimise baldanzoso al comando della sua flotta per cercare lo scontro frontale coi francesi nelle acque di Trafalgar. Qui nel furore delle polveri venne a morte, in modo eroico e certo degno della sua vita, colpito a morte alla colonna vertebrale. Ma era comunque riuscito a distruggere il nemico.
2.Lisandro dovette gestire la ricostruzione della potenza navale spartana che era stata annientata da Alcibiade nelle acque di Cizico. Ci riuscì consolidando la rete di contributi degli alleati lacedemoni e aprendo un rapporto di amicizia con Ciro il Giovane, sicché la vittoria di Nozio fu un banco di prova iniziale ma già entusiasmante di una perizia navale finalmente al passo con la grande tradizione peltastica di Sparta. Ma ad Egospotami, anziché una reale superiorità tattica, contò l’effetto-sorpresa, dal momento che gli Spartani colsero la flotta nemica assolutamente impreparata alla battaglia quando era già quasi alla fonda a riva. Questa vittoria segnò la fine dell’egemonia ateniese sulla Grecia e la fine di quella spartana: a rafforzamento della quale fu data carta bianca a Lisandro di imporre nelle varie città e rgioni governi di orientamento aristoratico retti perlopiù daclienti e amici personali del generale. A lungo andare però questi governi, per il loro carattere dispotico e sanguinario, resero insopportabile il giogo spartano, e provocarono nuovi rivolgimenti negli equilibri politici della penisola con il ritorno all’indipendenza di molte città, in primis Atene: di quest’odio dei Greci nei confronti di Sparta i re e gli efori non tardarono ad accusare Lisandro, che in realtà non aveva mai riscosso grandi simpatie con i metodi, da lui promossi, per installare i regimi vassalli.
Nel frattempo la morte di Ciro il Giovane e l’aperto atteggiamento antiellenico del nuovo re, Artaserse, avevano fatto mutare indirizzo anche agli Spartani nei confronti dei Persiani: paradossalmente però fu proprio il nuovo clima antipersiano che riportò in auge Lisandro, come ispiratore di una grande campagna panellenica contro l’impero di Persepoli, che sarebbe stata gestita dal nuovo re di Sparta, Agesilao, con l’appoggio strategico di dieci comandanti, tra cui egli stesso. L’avventura di Lisandro come comandante di terra in Persia fu però breve: ben presto scoppiarono nuovi disordini in Grecia, alimentati dai Tebani, e a sedarli fu designato proprio Agesilao con l’appoggio del re-collega rimasto a Sparta, Pausania. Lisandro aveva programmato che il suo esercito e quello del re dovessero ricongiungersi all’altezza di Orcomeno e affrontare insieme in campo aperto il grosso dell’esercito di Epaminonda: ma la sincronia non avvenne, a causa degli impedimenti incontrati dal sovrano, e Lisandro dovette soccombere da solo ad Aliarto all’urto della cavalleria tebana, trovandovi la morte.
3.La prima differenza di fondo che si può individuare tra Nelson e Lisandro è che il primo divenne ammiraglio quando la potenza navale inglese era al suo culmine, Lisandro invece dovette quasi rifondare le basi della flotta spartana. Nelson era poi un guerriero di nave vero e proprio, mentre Lisandro, come tutti i generali spartani, era in grado di gestire una flotta come di gestire un esercito di terra, e a capo di esso perse la vita. Inoltre Lisandro era mosso al dovere da un’ambizione di potere eminentemente interiore, mentre sempre nelle azioni di lord Nelson vi fu una superiore considerazione dell’interesse nazionale. In più alimentò costantemente la passione bellica di Nelson l’esistenza di un nemico costante, i francesi e Napoleone, mentre i Persiani furono per Lisandro un nemico creato a bella posta per rientrare nei giochi del potere: ed in realtà la vera rivalità tra Sparta e Atene apparteneva forse alle generazioni anteriori alla guerra del Peloponneso, a Temistocle e a Leonida per intenderci. Un elemento di somiglianza importante può essere rintracciato nella strategia di consolidamento dell’egemonia della loro patria, pur se dettato da concezioni di spirito diverse: è comune infatti a entrambi lo sforzo di rafforzarla attraverso l’insediamento o il reinsediamento di regimi monarchici o aristocratici amici, come si vide fare a Nelson dopo Abukir a Napoli e a Lisandro in tutta la Grecia dopo Egospotami. Tutti e due, poi, ottennero il loro trionfo maggiore cogliendo di sorpresa il nemico, e morirono nel mezzo della battaglia, anche se in entrambi i casi l’esito si profilava già con chiarezza: nella direzione del trionfo per l’uno, in quello della disfatta per l’altro.