Magritte – Sopra le sacre tavole del Quirino


Alle undici di quel fatidico 14 ottobre, per l’emozione di salire sopra le tavole calcate nientedimeno che da Eduardo e da Proietti, Jerry Luiss aveva rinunziato a qualsiasi travestimento, si era presentato in borghese, contando solo sulla brillantezza dei suoi pezzi. Era arrivato all’appuntamento con gli esaminatori, tra cui c’era il terribile René Pacciardi, tenendo sottobraccio una cartellina gialla plastificata, che aveva tenuto a personalizzare con una clip art indicativa dell’arte scenica, e una busta blu con chiusura adesiva. Aveva preparato una carrellata di freddure e un numero canoro. Il riflettore puntato sulla faccia. Iniziò con qualche perla, giusto per “raffreddare” l’ambiente. “Sapete chi ha inventato i colbacchi? Il ministro francese Colbert, che studiava l’economia dei cosacchi, il loro modo di risparmiare sul riscaldamento!” “Perché le vere femministe non vogliono iscriversi alla Luiss? Perché vorrebbero frequentare la Leiss!” “Perché le donne irachene si eccitano quando gli americani sganciano i missili Cruise? Perché sanno che vengono dallo zio Tom!” Non gli ci volle molto a constatare che i selezionatori avrebbero gradito qualcosa di più, e di diverso. <>, suggerì Pacciardi con voce tonante. E’ questa, per un umorista, come per qualunque artista, la reazione più letale che potrebbe aspettarsi: comprendere di non essere compreso, peggio ancora di non essere seguito. Il povero Jerry rimase come impietrito, poi abbozzò una reazione, e gli uscì timidamente il nome di Gianfranco Fini. Ora, per un umorista il vero capolavoro è quello di imitare un altro rimanendo perfettamente sé stesso, come la pipa di Magritte che voleva essere altro rimanendo quello che era. Disgraziatamente, però, sulle poltrone di quella sacra platea, quella mattina di ottobre, nessuno di quella troika di esaminatori era nato umorista. “Continui, continui pure”, disse per pura pietà Pacciardi, l’unico che parlasse della triade; gli altri, una docente di improvvisazione e un altro non meglio identificato addetto ai lavori, leggermente più panciuto di Pacciardi, si limitavano a sguardi di contenuta ma viva disapprovazione. Parzialmente smontato ma non domo, Jerry si accinse a tentare la sua ultima carta. Tolse dalla busta che teneva con sé una bombetta glitterata, comprata alcuni carnevali prima. Se la mise in testa e disse che avrebbe cantato una canzoncina, “Magritte”. Iniziò a canticchiare l’ultima strofa; la prima, tra l’annebbiamento emotivo e il riflettore accecante, se l’era letteralmente mangiata in testa.
Maagritte… Non pago l’affitt… Come esser più afflitt… 

Aalt!, fu il grido che squarciò il buio. Il povero Jerry, infatti, si era messo a cantare ad occhi chiusi, evidente segnale di come ormai stesse battendo psicologicamente in ritirata, voglioso solo di sparire dal palco e dalle sue luci. Era ancora Pacciardi. “Provi a cantare quello che sta facendo come se una mosca le ronzasse sopra il naso!” Jerry pensò di interpretare quella direttiva iniziando a battere le mani, come se volesse schiacciarlo, quell’insetto. “Lei non deve uccidere la mosca, deve solo scansarla!” Il suo sguardo vagò nel vuoto, sopra i palchi, fino alla galleria. Poi tornò a terra, a fissare Pacciardi. Niente da fare. Una vigorosa stretta di mano lo liquidò. Nel suo disorientamento magno, Jerry sbagliò addirittura l’uscita, e avrebbe abbandonato il palcoscenico dalla parte riservata agli artisti, se il solito cerbero non lo avesse richiamato. Ma era l’istinto naturale, o la naturale presunzione, che l’aveva portato ad andare per di là.

(da Ouvertures dei tempi di crisi


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