Tratto dalla raccolta Ouvertures dei tempi di crisi.
“Dopo di noi, il diluvio. Una cosa del genere la disse anche un pingue re francese di metà Settecento, ma si riferiva a sé stesso.”
Non aveva mai staccato le labbra dalla pipa.
“Quando mai rivedremo mari veramente incontaminati, pesci striati d’argento ma senza il piombo sul fiato, e lucci aggressivi come tori e non come piranha?”
Si accarezzò la barba.
“In altri tempi pescare aveva un senso diverso. Significava…”
“Alimentarsi?”
“Alimentarsi. E non solo dal punto di vista gastronomico.” Per la prima volta staccò gli occhi dal mare, affacciato com’era dalla prua del suo peschereccio, e si voltò a guardare l’interlocutore che aveva alle spalle, un giornalista. Capitan Findus non concedeva molte interviste; non che non avesse niente da raccontare, ma non amava apparire, specie da quando aveva abbandonato la Marina per dedicarsi a tirar su il suo gruppo di giovani.
“Le farà piacere sapere, ma forse ne è già a conoscenza, che ho iniziato come pescatore. Tutti i marinai dovrebbero iniziare come pescatori… “
“E come definirebbe l’arte della pesca?”
“Be’, non ho niente di più interessante da dirle di un qualsiasi amatore della pesca con la lenza. Io semmai conosco i pesci, conosco il loro animo… Molto spesso è proprio chi non parla che fa capire tanto di sé.”
“Molti la accusano che diventare un profeta del pesce surgelato è stato un tradimento dei suoi ideali. Cosa risponde?”
“Che mangiare pesce è importante, e farlo in modo che possa essere reso accessibile anche a un pubblico di consumatori “verdi” è una missione, non è un tradimento.”
“È come semplificare una materia ostica e renderla alla portata di tutti?”
“Sì, l’alimentazione moderna va in questo senso, non lo si può negare. Un prodotto non è più genuino di un altro sulla base della sua qualità intrinseca, ma per come viene preparato, partendo da una materia prima di qualità.”
“Ad altri potrei chiedere quali siano stati gli incontri prestigiosi che hanno segnato la loro vita. A lei potrei chiedere… quali sono stati i pesci che hanno contato di più nella sua vita?”
Capitan Findus sorrise mettendo in mostra quell’espressione luminosa che era rimasta intatta da quando era giovane. “Certo, capisco perfettamente e apprezzo. Però… il discorso è lungo. Non vorrebbe seguirmi sotto coperta? Staremmo più comodi!”
“Ma certamente!”
Il vano cottura del peschereccio non era molto distante dalla cabina di pilotaggio. Per quanto potesse permettere lo spazio, era anche sistemato in modo abbastanza accogliente. Alla parete dell’uscio un classico quadretto realizzato con una collezione di nodi; all’angolo un’altra parete, con un oblò in cima, e ai suoi piedi un divanetto di pelle; di fronte, un frigorifero con sopra un vaso che conteneva un tulipano; e, a fianco al frigo, un piccolo lavabo con accanto due fornelli, e una dispensa alla buona. Capitan Findus estrasse una delle sue specialità dal congelatore.
“Ha già cenato?”
“Potrei sbagliarmi? Panatura orange, forma allungata… Lei mi sta preparando….”
“Ahah… Le svelo un segreto. Qui da noi nessuno li chiama come sono noti in commercio. Lo vuole sapere come li chiamiamo?”
“Be’, non chiederei di meglio….”
“Martin! Vieni qui, figliolo!”
Si presentò alla loro vista un ragazzino di non più di tredici anni, capelli lunghi castani, pantaloncino bianco e canotta a bande bianco-rosse.
“O capitano, mi mancavano proprio le lame di coniglio!”
Il giornalista si alzò, come per presentarsi, dopo che il ragazzo si accorse di lui. “Simon. Simon Baker, del Chronicles of the Coast.”
“Piacere, Simon”, disse il ragazzo.
“E’ tutto mio, Martin. Lame di… coniglio?”
“Sì, quelle che il capitano sta friggendo.”
Intervenne il capitano. “Sì, è così che qui conosciamo questi surgelati. Un giorno ho raccontato loro che sono fatti sul modello delle carote che una volta alcuni conigli sbocconcellarono per farne un’arma di difesa. Delle lame, appunto, che applicarono a dei legnetti per allontanare alcuni insetti fastidiosi.”
“Capisco. E’ tutta una metafora.”
“Al contrario. Posso garantirle di aver visto con i miei occhi quella tribù di conigli. Lottavano contro dei moscerini. Si servivano delle punte di carota, appositamente insalivate, come esca per farli abboccare; poi, una volta che si erano posati su quella saporita e vischiosa superficie, li affogavano in piccole pozze.”
“Notevole. Un comportamento che ci si potrebbe aspettare solo da primati, o simili.”
“No, non è una metafora. L’ispirazione è reale, anche se molto esotica: ho visto quei conigli in una foresta nordamericana. Boomerang catafratti, questa è una metafora.”
“Sì, credo di capire a quale altra specialità in commercio si riferisce.”
“Martin, raduna gli altri”, disse il capitano. “Stasera è meglio mangiare al coperto, le nuvole si addensano.”
“Sì, capitano”. Martin sparì dall’uscio. In meno di tre minuti la stanzetta da pranzo si riempì di un vociare allegro. C’erano la bionda Deianira, ancora in pigiama, Jim, aspirante lupo di mare, Tom, l’occhialuto golosone della comitiva, ed Erika, la più grande con i suoi quindici anni. E naturalmente Martin, che era la vera perpetua del capitano.
“Non le dispiace se continuiamo l’intervista con tutta la ciurma, vero?”
“Uhèèè… lame di coniglio!” esclamò Deianira.
“No, assolutamente, non mi disturba affatto”, commentò Simon.
Erika apparecchiò lestamente la tavola. Stese una tovaglia giallina dorata con gli orsacchiotti; al centro del tavolo sistemò una caraffa di Coca ghiacciata, poi distribuì i bicchieri sfaccettati e i piatti azzurrini. E il capitano, con un fare tra lo chef e il sacerdote, provvide le porzioni dalla teglia di rame. Tutti si accomodarono. La cena era servita.
“Qualcuno ha malignato su questa comunità infantile”, la buttò lì Simon a fendere i simpatici schiamazzi dei bambini.
“Non c’è niente di esoterico. Questi ragazzi imparano ad amare il mare”, ribatté masticando il capitano.
Simon prese un bastoncino di pesce, che gli si spappolò in mano.
“Ma… questo rapporto, direi questo binomio tra lei e il merluzzo…”
“Mi sta chiedendo se sono stato io a suggerire questo prodotto? Risposta positiva!”, lo investì il capitano, intento a spezzare il pane e a condividerlo come in una comunità protocristiana.
“Io volevo chiamarlo come lo chiamiamo qui. Poi mi dissero che per metterlo in commercio ci voleva un nome più… rassicurante. Ecco, rassicurante, mi dissero proprio così, rassicurante.”
“Mmh, che buone le lame di coniglio!”, proruppe gioiosamente Tom.
Il capitano si rivolse a Simon altrettanto raggiante. “Però, lo vede? Il fatto che questi ragazzi amino questi surgelati, con quel nome strampalato, mi ripaga ampiamente.”
<>, incalzò Simon.
“Jim, vuoi spiegarglielo tu?”. Colui che, tra quei futuri capitani, era di sicuro il più futuro capitano di tutti, si alzò tra l’intimidito e l’inorgoglito. Era un ragazzo magro, la pelle e gli occhi chiari, occhi biondo-castani. Aveva da poco superato i dodici anni. Portava un pantaloncino beige e una polo azzurra con un delfino ricamato.
“Sì, capitano. Bene, deve sapere, signor…”
“Simon.”
“…. Il nostro capitano era al largo delle Samoa, come capitano di vascello.”
“Sì, esatto, figliolo. Fu il mio ultimo incarico in Marina”, intervenne
il capitano.
“E si era innamorato di una ragazza dell’isola…”
Un lampo di adorabile imbarazzo negli occhi di quel vecchio mentore.
“Aveva pensato di nascondere una conchiglia d’oro dentro una baguette che aveva preso dalla cambusa. Come regalo per dichiararsi. Ma quella baguette, maneggiata da un mozzo maldestro, cadde in mare…”
“Ludwig, si chiamava Ludwig e veniva da Norimberga”, disse il capitano vagando con lo sguardo nei ricordi.
“… E…. venne inghiottita da un merluzzo, che morì sul colpo”.
“E poi?”. Il tono di Simon si era fatto avido.
“Quel merluzzo fu recuperato, ma la baguette era diventata una poltiglia sanguinolenta indistinta dentro quel povero pesce. La conchiglia aveva perso tutta la sua lucentezza. Capitan Findus fu doppiamente afflitto: per aver ucciso un pesce e per aver perso il regalo che voleva fare alla sua bella.”
“E allora che accadde?”, continuò Simon.
“Il capitano si presentò comunque all’isola, ma non osò avvicinarsi alla ragazza.”
“Bainuk”. Era il capitano a puntualizzare.
“Bainuk è il nome della ragazza?”, gli chiese il giornalista come a fiondarsi dentro uno spiraglio di gloria. Che scoop, in effetti: una storia d’amore del capitano.
“Sì”, proseguì Jim. “Malinconicamente, il capitano si limitò a guardarla da lontano, a constatare, rimanendo a distanza, che in realtà anch’ella stava cercando qualcuno, qualcuno che in quel momento non vedeva, non trovava.”
“E che fine ha fatto Bainuk?”. La sete di sapere di Simon stava diventando precipitazione.
Il capitano fece cenno a Jim di rimettersi seduto. Fu lui a riprendere la parola. “Passarono gli anni, e dopo aver abbandonato la Marina, ormai nell’età della pensione, grazie alla mia esperienza da pescatore trovai un nuovo lavoro come consulente: dovevo certificare la qualità dei prodotti ittici di quell’industria di surgelati di cui sono ormai la bandiera. Mi chiesero l’idea per un prodotto da tavola che potesse far appassionare il pesce ai giovani, e mi ricordai della mia sfortunata esperienza.”
“Si ricordò del merluzzo o di Bainuk?”. Simon proseguiva con il suo incalzare, ma il tono ironico della domanda si disperse in quell’atmosfera di solenne nostalgia.
“Semplicemente mi ricordai che non è bene che il pane stia dentro al merluzzo. E’ bene che il merluzzo sia dentro al pane. O sia ricoperto da uno strato sottile di pane, come poi escogitammo insieme agli altri esperti dell’azienda. La forma fu tutta opera mia, invece: solo il nome che volevo dare non passò, come le ho detto.”
“Ma Bainuk, l’ha mia più rivista?” Davvero ansioso, Simon, di arrivare al punto.
Capitan Findus aveva finito di mangiare. Anche i piatti degli altri ragazzi erano quasi arrivati a completamento. Chi invece non aveva per nulla fatto onore alla tavola era proprio l’intervistatore.
“Non si preoccupi, non la congederò prima che abbia saputo ogni cosa. Ma ora la prego, finisca di gustarsi il suo pasto. Io do una mano ai miei ragazzi con i piatti già vuoti. Poi vada a sedersi su quel bel divano e si riordini un po’ i suoi appunti. Non approfitterò certo di lei per farmi dare una mano a sparecchiare.”
In realtà il capitano non approfittò neppure di quei ragazzi: fatti impilare i piatti a fianco al lavabo, diede loro la libera uscita. “Andate pure, cari. Rigovernerò io.”
“Va bene, capitano”, disse Tom che fece come per dare una sbirciata furtiva al congelatore, dov’erano conservate le specialità. Ma poi, per rispetto nei confronti del capitano, desistette, salutò e andò via.
“Buonanotte, capitano”, disse Deianira, dando anche un’occhiata gentile a Simon. “Buonanotte”, riecheggiò Martin.
” ’Notte, capitano”, fece Erika, la più taciturna del gruppo. “Arrivederla”, concluse rivolta a Tom, che ricambiò con un sorriso disteso.
“Io vado a dormire, capitano. Buonanotte anche a lei, signor Simon.” Furono le ultime parole di Jim, prima che guadagnasse l’uscita. “Va’ pure, a domani”, lo congedò dolcemente il vecchio marinaio.
Simon e il capitano erano di nuovo soli. “Non si preoccupi, non mi vedrà lavare i piatti. Sono disposto ad andare prima in fondo alla storia. Oltretutto farla aspettare andrebbe anche contro le regole della mia ospitalità.”
Simon annuì, sorridendo.
“Dunque, dov’eravamo rimasti?”. Il capitano sprofondò sul divano, accanto al suo intervistatore.
“A… Bainuk!”. Simon lo aveva inchiodato.
“Dunque… passarono gli anni. Ma questo l’ho già detto. Sì, alle Samoa ci sono tornato, come consulente della mia azienda. Ma non avevo mai dismesso la mia divisa. Avevo espressamente richiesto ai miei dirigenti di mantenere i miei panni da ufficiale, praticamente la mia seconda pelle. E mi fu accordato.”
“Be’, si vede anche dalla pubblicità”, commentò Simon.
“Esatto, fu una mia indicazione… imprescindibile!”
“Ma fu proprio alle Samoa che debuttò con la sua divisa da lupo di mare…. aziendale?”
“No, quello fu il mio quinto viaggio in quella veste. Prima ero già stato alle Hawaii, in Norvegia, sul Tirreno e in Giappone.” Fece una pausa, poi riprese: “Be’, certo, alle Samoa, poi, c’era un motivo in più perché volessi rimanere in divisa. Non lo immagina?”
“Credo proprio di sì”, rispose Simon.
“È evidente: così sarebbe stato molto più facile per Bainuk riconoscermi, se mai si ricordasse di me.”
“Riuscì a rivederla?”
“Era rimasta sempre lì, nel posto in cui l’avevo lasciata. Continuava a mandare avanti la bottega di famiglia, dove si intrecciavano collane di conchiglie. E non aveva voluto saperne di unirsi a un altro indigeno.” Lo sguardo del capitano era quello di un bambino la cui felicità non avrebbe potuto essere scalfita da niente.
“Anche lei non era cambiata. Era solo un po’ più tonda, o forse solo un po’ più morbida. Ma aveva conservato il sorriso di fiore fresco su una pelle di luna, la sua chioma fluente e misteriosa, il suo fascino che sapeva ad un tempo di foresta profonda e di oceano sconfinato.”
Simon ascoltava con religiosa devozione.
“Mi avvicinai, come tante volte avevo fatto, alla sua bottega. Non c’era più sua madre. Era rimasta sua sorella.”
“Che le disse?”
“Mi sorrise, le sorrisi. Niente era cambiato.” Tacque un momento. “Non mi ero presentato a mani vuote.”
“Posso presumere che avesse recuperato la conchiglia d’oro?”
“Ne avevo comprato una nuova. Ma l’idea era sempre quella: fargliela trovare celata dentro qualcosa, o sotto qualcosa. Avevo in mano un vassoio allungato, coperto da una tovaglia bianca. Era una guantiera di… lame di coniglio. Con sorpresa!”
“E la sorpresa era…”
“Ma sì, certo: la conchiglia! Avevo consumato la mia vendetta su quell’innocente merluzzo!”
“Ma allora riuscì a dichiararsi, alla fine?”
“Sì, ebbene sì.” Il cuore gli sorrideva. “E devo ringraziare questi surgelati dal viso arancione.”
“Dunque, possiamo dirlo: Capitan Findus ha una donna? Una donna che è ancora presente nella sua vita?”
Il capitano fece un lungo respiro. “Devo rivelarle una cosa. Se oggi vivo con questi ragazzi è proprio per merito suo.”
Simon non esitò un istante. “Che collegamento c’è tra quella donna e questi ragazzi?”
“È bene partire dal principio. Circa otto anni fa una nave da crociera occidentale naufragò al largo di Samoa; alcuni indigeni cercarono di accorrere con le loro rudimentali imbarcazioni prima che gli aiuti del cosiddetto “mondo avanzato” si muovessero. Ma riuscirono a mettere in salvo solo alcuni bambini, molti ancora in fasce. I loro genitori, come anche tutti gli altri passeggeri di ogni altra età, perirono o affondando o in ospedale, dove vennero ricoverati in condizioni ormai disperate. Ma quel gruppo di bambini, grazie all’aiuto tempestivo di quei buoni selvaggi, riuscirono non solo a scampare il pericolo, non solo a riprendersi ma anche a ricostruirsi una vita. Non immagina chi siano questi bambini?”
“Ma certo: sono i bambini della sua ciurma!”
“La prima volta che li vidi li trovai beatamente integrati in una sorta di colonia infantile, dove erano mescolati con fanciulli indigeni. Naturalmente tutto era sotto l’amorosa supervisione delle famiglie di questi, o dei loro parenti.”
“E tra questi adulti supervisori c’era anche Bainuk?”
“È la zia di Ghabil e Edo, due fraterni amici di Martin – il ragazzo che ha conosciuto per primo. Mi fece promettere che avrei preso con me quei ragazzi, che lei considera come suoi figli. E, avendo compreso quanto essi fossero importanti per lei, mi licenziai da consulente dipendente per diventare consulente collaboratore della mia azienda, e mi inventai un nuovo lavoro per integrare: maestro di navigazione per aspiranti marinai. E presi quei ragazzi come assistenti permanenti. Da allora sono la mia famiglia: ed io, a questo punto posso anche confessarglielo, prima di allora una famiglia mia non l’avevo mai avuta.”
Simon incassò quest’ultima dichiarazione con la soddisfazione evidente di chi stava portando a casa un risultato ghiotto ed insperato. Gli avevano ben detto che Capitan Findus era un personaggio ostico, e lui aveva invece trovato il grimaldello per trarne fuori un ritratto umano, aperto, inedito.
“Be’, mi sembra giusto: ogni vero marinaio è nomade dal punto di vista familiare!”
“Quand’ero pescatore amavo la pesca e i pesci, quand’ero marinaio il mare e i pesci. Ora sto cercando di educare gli altri alla vita del mare e all’amore per i suoi abitanti.”
“Capitano, io la devo ringraziare. Questa è senz’altro la frase migliore per concludere la nostra intervista. Lei è riuscito a offrire un’immagine di sé che non ha niente a che spartire col personaggio a cui ero stato preparato.”
“Be’, forse le avevano parlato male di me perché quello che correntemente si pensa al mio riguardo si può sintetizzare in questa erronea affermazione: Ha amato più i pesci degli uomini. Magari riporti proprio questa frase alla fine della sua intervista, dopo averne dimostrato l’infondatezza dell’assunto.” Si alzò di botto dal divano.
“E comunque voglio stupirla ancora con la mia generosità: ormai è notte, non la lascerò andare via così. Un posto sotto coperta per lei si troverà: dormirà con noi e ripartirà domani.”
Anche Simon si alzò.
“Be’, non avrei mai potuto pensare di approfittare di tanta generosità, ma accetto. Il tempo è brutto e dopotutto, io stesso avrei potuto decidere di fermarmi in questo porto, magari prendendo una stanza nelle vicinanze.”
“Allora è fatta: buonanotte. La accompagno alla sua stanza… pardon, alla sua branda!”
Simon non ci mise molto ad accorgersi che la definizione che il capitano dava alla sua sistemazione era indice di fin troppa modestia. Su un corridoietto si aprivano le stanze riservate a lui e alla sua ciurma. Molte di quelle dei ragazzi erano socchiuse, quindi da ciò che gli usci permettevano di far scoprire poté intravvedere dei letti a castello e delle semplici pitture con soggetto ittico a decorare le pareti. Ultima veniva la stanza del capitano: per quella notte avrebbe avuto l’onore di condividerla. Anche qui letto a castello, ma niente pesci sulla parete: per una volta mancavano nella visuale del capitano! Piuttosto vi si poteva ammirare la gigantografia di un galeone spagnolo. In questo modo Simon poté vedere anche la parte all’interno del peschereccio che ancora gli mancava.
Quella notte il capitano dormì, al solito, come un sasso. Non si poté dire lo stesso di Simon: la febbre di saperne di più non gli dava tregua neanche nelle ore più buie. Sin da quando era entrato nella stanza del suo ospite una busta posata su una piccola secretaire in ciliegio aveva occupato i suoi pensieri: ora, con l’aiuto delle tenebre, si risolse ad alzarsi di soppiatto e così, presa la busta, a passi felpati uscì nel corridoietto. Qui con l’aiuto della pila del suo cellulare lesse cos’era riportato su di essa e, dato che era aperta, anche il suo contenuto. Si trattava di posta privata indirizzata al capitano, da parte di un’Agency for Food Emergency. Il messaggio accluso diceva così:
“Caro Capitano,
come le è noto, la nostra agenzia sollecita l’intervento di benefattori privati per arginare le emergenze alimentari che si verificano in aree particolari e circoscritte del mondo, specialmente nelle piccole isole abitate da popolazioni lontane dal progresso industriale. Desideriamo renderle noto che a Tuagu-Lu, a causa di una durissima carestia, non c’è più frumento. Come già in altre occasioni, lei potrebbe intervenire fornendo i suoi prodotti surgelati a base di pesce, facilmente infornabili e in grado di sostituire, almeno per un tempo determinato, i prodotti panificati.
Risponda con la massima sollecitudine.
La coordinatrice dell’agenzia per gli aiuti
Bainuk Agele.”
Ecco dov’era finita Bainuk, pensò Simon. Ora lui lavora per lei, e questo rapporto professionale nasconde quello sentimentale che c’è tra di loro. Ma come avrà fatto Bainuk a diventare da artigiana che era un’operatrice umanitaria? Evidentemente, pensò tra sé Simon, la vocazione era sorta prepotente in lei quando aveva cominciato a prendersi cura di quei ragazzi.
Tornò nella stanza, rimise la busta al suo posto e fece per tornare a letto. Ma prima fece in tempo a vedere dall’oblò il solerte Martin che, con la giacca antipioggia addosso, armeggiava con le ancore. Con tutta probabilità fra qualche ora si sarebbe salpati alla volta di Tuagu-Lu.