Essere cosentino

Chi, servendosi di una cartolina stereotipata, definisce i calabresi persone chiuse, un po’ zotiche e tendenzialmente asociali non si accorge di usare un doppione di cartolina, quella che, con altrettanta inesattezza, corrisponde ad abruzzesi e molisani. Insomma, chi pensa questo dei calabresi certamente tende a considerare i meridionali una massa becera indistinta. Invece, chi si barcamena meglio nella differenza tra luoghi comuni e dati antropologici sa che il calabrese è esattamente a metà strada tra il cliché del campano vitale, colorato e fantasioso e quello del siciliano orgoglioso quanto generoso, e sostanzialmente ermetico. Non è proprio impalpabile come il lucano, che è comunque una sottospecie più introversa del pugliese levantino e bizantino. Il vero calabrese è di sicuro meno infido del più cordiale dei pugliesi, più riservato del campano stile “napulitano”, e più continentale del siciliano archimedico, che insegue le sue chimere e le sue trame tracciando al suolo figure astruse. E i cosentini, i più settentrionali tra i calabresi, sono, da buoni nordici, anche i più riservati tra essi.
Naturalmente la riservatezza del cosentino non ha molto a che vedere con quella, un po’ fredda e distante, che convenzionalmente viene associata agli abitanti del Nord. Non è certo mancanza di cordialità, anzi: sembra prenda in prestito qualcosa dall’apatico lasciar vivere dei romani, ma senza quella percezione di essere sempre e comunque al centro del mondo che, in un certo senso, quasi giustifica quell’immobilismo. Sì: nel cosentino autentico l’indole riservata, che forse sarebbe meglio definire sobrietà interrelazionale, è una specie di atarassia filosofica nei confronti del mondo, quasi un senso di superiorità verso le sorti della vita, un menefreghismo morale, che magari può apparire cinismo, ma non lo è per forza. L’espressione che da sempre contraddistingue il cosentino nel mondo è. Chi cazzu mi ni frica (che diamine me ne importa)? Provate a dirlo a denti stretti, con una faccia fieramente disgustata, e avendo l’accortezza di raddoppiare la c di cazzu e la n di ni: avrete il ritratto purissimo del cosentino eccellente. Chi cazzu mi ni frica degli altri (ma non necessariamente per prevaricarli, sia chiaro)? Che cosa sono gli altri, rispetto al mio vissuto? Chi potrebbe rappresentare me… meglio di me? Chi cazzu mi ni frica del mondo? Non c’è niente di importante nel mondo che non sia partito dall’iniziativa di un qualunque uomo in qualunque momento, qui ed ora; quindi, se sono io l’importante, se sono io il protagonista, non devo fare altro che continuare a vivere e a fare le cose come dico io. Da questo atteggiamento filosofico, intellettuale, discende la risposta del cosentino alla domanda sulla sua identità nella storia: l’egocentrismo cosmico (Chi cazzu mi ni frica ‘i tia (di te)? Io resto il migliore, sempre e comunque). E non c’è odio né tentazione misantropica né reale superbia in tutto questo: al contrario, è un esercizio quotidiano a metà tra il coraggio di esistere e la dignità di sopravvivere. Anche nel vero senso dell’umorismo di marca bruzia ritroviamo quella nota di superiore, dignitoso e impietoso distacco: uno specimen egregio ne è una battuta fatta da una signora mia vicina di casa durante una conversazione nel cortile del palazzo dove vivo a Capodanno del 2000. Si era in procinto di andare in piazza ad assistere al concerto di Franco Battiato (Battiato in dialetto cosentino significa “battezzato”) e le chiedemmo, scherzosamente: Signora, va anche lei a vedere Battiato stanotte?
– Be’, nella mia vita ho già visto ben più di un… battiato. E mi basta!
Capimmo che la signora alludeva alla sua pletora di figli e nipoti e così la salutammo, ridendo di gusto.
Ma l’humour cosentino è capace anche di raggiungere picchi proverbiali, prudenziali. Come in quella storiella tradizionale che chiama in causa gli albanesi,  minoranza etnica della provincia di Cosenza guardata nei secoli con diffidenza dagli indigeni. Potrà capitarti un giorno, in una foresta della Sila, di incontrare un lupo e magari, quasi nello stesso momento, un albanese: in tal caso non pensarci due volte, spara prima all’albanese, e poi, soltanto poi, al lupo. Oppure, uscendo dalla tradizione ma rimanendo fedeli alla natura dell’humour cosentino, si potrebbe pensare ad allearsi col lupo (tra l’altro simbolo del Cosenza calcio, non va dimenticato) perché sbrani l’albanese. La sua salma potrà quindi essere portata ed esibita allo stadio San Vito come trofeo.                        


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