Non chiamatela “rinascita occhiutiana”: parliamo piuttosto, e con più esattezza, di un restyling concretizzato dall’intelligenza urbanistica del sindaco. La verità però è che la vita a Cosenza langue; langue l’entusiasmo, languono gli orizzonti, e la voglia di averne; soprattutto quasi ogni giorno manca all’appello un esercizio commerciale, che per una città che vive di terziario è come amputare ogni giorno un centimetro dei polmoni; e una depressione opprimente impera. Non è colpa dell’amministrazione se si è trovata storicamente a dover gestire il culmine nero di una crisi nera, che, certo, viene da lontano e sembra non avere sbocchi; Perugini visse di rendita, sfruttando l’ultima fase del vitalismo catizoniano; e la Catizone a sua volta ereditò le magnifiche risorse della stagione d’oro manciniana. Soprattutto la differenza tra allora e oggi è che ci si sentiva meno soli; nessuno probabilmente ha fatto quanto Occhiuto negli ultimi dieci anni (vedi anche raccolta dei rifiuti, dopo le pazzesche acrobazie della Catizone prima e di Perugini poi), ma anche le cose più belle fatte in un deserto restano cose tristi. Urbanisticamente il sindaco-architetto non sta perdendo un colpo e, a tutt’oggi, non ha fatto niente di spiacevole per l’arredo e la viabilità urbani – insomma, a parte l’affastellamento di illuminazioni a Natale, il progetto-via Arabia forse un po’ troppo pretensioso e, appunto, lo stato di cantierizzazione continua, siamo lontani anni luce dalla città a due facce dell’epoca Catizone, monumentale da un lato e sprofondata nello psicodramma dei cordoli da un altro, e ugualmente lontani anche dalla cementificazione continua di peruginiana memoria. Corso d’Italia (corso Fera) oggi ha marciapiedi larghi, perfetti, funzionali, occhiutiani; e fra qualche mese anche piazza Fera (piazza Bilotti) mostrerà un volto più elegante, più innovativo, più vivibile; ma, ora come ora, passeggiare a marzo lungo corso d’Italia è come passeggiarci a metà agosto, e probabilmente lo stesso spettacolo si vedrà a piazza Fera. Va un po’ meglio col lungo-Crati, ma chi può essere sicuro che una simile malinconia non cali anche lì, una volta smantellato il baraccone della rassegna estiva? A che servirebbe la bellezza di piazza Navona, se davanti alle sue tre magnifiche fontane affacciassero pizzerie, ristoranti e bar con le saracinesche rigorosamente sprangate, su cui campeggino cartelloni dove si legge “Riapertura mai”? Bisogna dare atto al sindaco di occuparsi di arredo urbano con pochi fronzoli per la testa, senza le velleità artistico-museali degli ultimi anni e guardando essenzialmente al binomio struttura-qualità della vita: magari la ciliegina sulla torta sarebbe una bella potatura di tante aree verdi, anche e soprattutto di recente costituzione, che, specie nei periodi caldi, sconvolgono un po’ il tradizionale ecosistema urbano (però, chissà, se papa Francesco venisse in visita a Cosenza anche questo passo potrebbe compiersi). Per contro, se qualcosa gli si può imputare, è di non aver avuto il coraggio, in questo periodo di emergenza storica, di farsi capofila o promotore (diventando, perché no, anche un esempio per il resto d’Italia) di una politica di incoraggiamento del commercio e del lavoro cittadini riservando almeno una parte dei soldi spesi per le sue opere pubbliche (comunque utilissime, bisogna ribadirlo) all’incentivazione di una piccola ripartenza economica in ambito comunale. Basterebbe poco, in realtà, almeno quanto si spende per una pavimentazione stradale nuova. Lo sappiamo del resto, l’Italia è sempre stata il paese dei cento campanili e dei cento comuni, spesso gelosi l’uno dell’altro e in lotta, quasi sempre aspra, tra di loro; quando anche solo l’idea di uno Stato unitario era semplicemente qualcosa a metà tra un incubo e un’utopia, di fronte alle crisi, alle carestie, alle pestilenze, agli assalti dei nemici ogni comunità cittadina badava a sé, contando unicamente sulle proprie risorse; in questi tempi grami ci appare sempre più chiaro che tornare a queste care, vecchie abitudini storiche non sarebbe controproducente. Proprio adesso che rinneghiamo il localismo per tornare ad un centralismo da spending review, ci sembra invece che questa sfida della crisi possa essere affrontata meglio partendo dalla dimensione locale. E’ forse un ignominioso ritorno all’ognun per sé di pre-risorgimentale memoria? Il nostro attuale premier, segno dei tempi, è un fresco ex sindaco dotato di un forte orgoglio municipalistico (e così legato alla dimensione locale da aver proposto, in prima battuta, per la riforma elettorale nazionale proprio l’adozione della legge per i sindaci); il fato, per così dire, ha dato a un amministratore comunale la possibilità di tentare di far riprendere l’Italia; e allora perché, allo stesso modo, non si dovrebbe pensare che ogni altro suo collega non si carichi delle sue stesse responsabilità, nel proprio ambito territoriale di competenza? Al di là del federalismo istituzionale, del federalismo economico, del federalismo burocratico, quasi tutte visioni fallite o in via di fallimento, bisogna rilanciare con forza un federalismo delle energie e delle strategie di sopravvivenza; ci salveremo con la maturità di scelte autonome sul territorio, forti ma non scellerate, a misura della realtà locale, e, a cose leggermente migliorate, ma non prima, potremmo anche “riaprire le frontiere” e confrontarci con i modelli degli altri. Poi il miglior modello diventerà il modello italiano di lotta alla crisi, valevole anche per i futuri chiari di luna; nel frattempo però ogni singolo comune, ogni singola provincia, ogni singola contrada avranno vissuto un’esperienza di crescita nell’autoconsapevolezza assolutamente impagabile, e imprescindibile.