La notizia della morte di Mancini era corsa per la città già alle prime ore del pomeriggio di quell’8 aprile 2002; in realtà era noto da tempo ai cittadini che stesse male, costretto com’era sin dalla seconda metà del suo mandato di sindaco su una sedia a rotelle, sicché l’impressione ormai diffusa era che dominasse il Consiglio comunale facendosi a sua volta dominare, e che alla sua ombra comandassero nei fatti l’ambizione del suo assessore all’urbanistica, Eva Catizone, e quella del nipote suo omonimo, figlio di quel galantuomo che era stato anch’egli sindaco della città.
I suoi funerali si tennero nel sabato successivo alla morte, in una Cosenza già in piena atmosfera primaverile, nella piazza dei Bruzi adornata da quella fontana, opera di Mimmo Palladino, con l’elmo bruzio che proprio il sindaco aveva voluto per rappresentare l’identità cittadina. Al centro della piazza furono allestite due tribune, una per le riprese della televisione, l’altra per gli oratori chiamati a dare l’ultimo saluto a colui che i più giovani conoscevano come l’anziano sindaco di Cosenza, quelli che avevano superato i trent’anni come il politico che aveva fatto il Giornale di Calabria, gli ultraquarantenni come il segretario nazionale del Partito socialista e il ministro degli esecutivi del centrosinistra, e gli ultrasessantenni come il figlio del fondatore del Partito socialista a Cosenza. In particolare furono quattro le voci che si susseguirono sul palco: Piperno, Macaluso, il nipote e il figlio di Mancini. Secondo alcuni, presentendo il momento del trapasso, Mancini avrebbe avuto il tempo di disporre anche quali sarebbero dovuti essere gli oratori del suo funerale e in quale ordine avrebbero dovuto avvicendarsi. Sia consentito allo storico di non riferire testualmente quanto ciascuno di essi pronunciò, ma di rielaborarlo sulla base del concetto sostanziale espresso nei loro discorsi.
Il primo a prendere la parola fu quindi Franco Piperno, che era assessore alla cultura in quel tempo, così come all’epoca della prima giunta Mancini. Così parlò egli ad un dipresso:
“E’ mio dovere ricordare qui Mancini come un amico che mi diede protezione e rifugio nel momento più difficile della mia vita. A quel tempo, si era agli inizi degli Anni di Piombo, il gruppo intellettuale sovversivo di sinistra, che avevo fondato, si era macchiato dell’orrendo delitto dei due figli di un segretario missino, e quella fu la causa della su dissoluzione in pochissimo tempo:dei suoi membri chi, come Lojacono e Panzieri, considerati gli esecutori materiali della strage, venne arrestato; chi preferì una volontaria diaspora verso le Brigate Rosse; solo io, innocente non meno di altri nel gruppo del sangue versato, restai dov’ero, libero di tornare a stare al di fuori della militanza attiva. Data, anzi, l’esperienza che avevo maturato da dentro il fronte extraparlamentare, mi proposi come intermediario con gli estremisti che avevano sequestrato il presidente della DC Moro, estremisti le cui file, come ho detto, si erano ingrossate con l’afflusso di molti miei ex compagni, avendo come alleato a Montecitorio proprio Mancini e il Partito socialista, che su ispirazione del suo leader si oppose alla linea della fermezza contro il terrorismo. Ma gli strali di un’ingiusta persecuzione giudiziaria colpirono anche me alla fine del decennio, e fu solo grazie all’aiuto di quest’uomo la cui morte oggi celebriamo se potei evitare il carcere trovando asilo nella sua casa per poi espatriare in tutta sicurezza in Francia ed oltreoceano. Il tempo mi rese giustizia, ed in fondo al mio travaglio ritrovai ancora una volta questo mio grande amico, pronto ad offrirmi una nuova opportunità nella vita pubblica. E doveva ancora iniziare la sua odissea giudiziaria, così simile alla mia, per l’accusa di membri delle cosche reggine di essere colluso con le mafie locali; un riflesso pallido, ma devastante, dei processi del fermento tangentopolitano, così come la mia lo era stata del giustizialismo reazionario di quegli anni, e che, come nel mio caso, gli rubò anni fondamentali per non smettere di fare, ma non gli tolse l’energia per tornare ancora una volta protagonista da scagionato”.
Dopo di lui parlò Emanuele Macaluso, un vecchio esponente del Partito comunista:
“Dovete essere orgogliosi, cosentini, di aver avuto come sindaco un protagonista assoluto della politica italiana degli anni ’60 e ’70, ministro dei Lavori pubblici nel secondo e nel terzo governo Moro e nel primo e secondo governo Rumor, ministro del Mezzogiorno nel quinto governo Rumor, importatore del vaccino antipolio in Italia come ministro della Sanità nel primo governo Moro, e inventore dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, oltreché padre della vostra università. Eppure non vi dispiacerà accettare che Mancini non appartiene soltanto a voi, come cosentini, o a voi come militanti socialisti ed ex socialisti; ma a tutta la sinistra italiana, ben al di fuori dei confini di ciò che fu o di ciò che resta del Partito socialista, e quindi anche a noi, i cugini-rivali, qui rappresentati da me, che, per anzianità di militanza e di esperienze, mi sono guadagnato tra di essi il rango, di cui forse non sono degno, di padre nobile. La mia formazione politica, come saprete, l’ho compiuta tra le file del sindacato: lì in quella dimensione ebbi la fortuna, a quei tempi,di respirare un sentimento della sinistra del tutto avulso da quello che era il suo panorama politico-parlamentare: pallido era il riflesso delle spaccature, dei processi partitolitici; non c’era il comunista, non il socialista, e, se pure ci fossero state divisioni create da tessere diverse, esse si annullavano in una superiore unità di lotta e di intenti. Come all’origine della vicenda storica della sinistra, cioè, quando esisteva un solo partito, quello turatiano appunto, contornato da tante piccole associazioni a difesa dei lavoratori. Se c’è qualcosa che mi accomuna a Mancini, è quella di essermi sempre sentito un vero uomo di sinistra, al di sopra di un’etichetta particolare dovuta all’appartenenza ad una parte di tale area politica; e se posso darmi questa definizione lo devo, come ho detto, alla mia stessa educazione di politico, di matrice sindacale; a rendere tale Mancini, invece, era la sua identità socialista fin dalla culla, essendo egli il figlio del fondatore del Partito socialista a Cosenza. Ed è per questo che, dal mio punto di vista, l’azione manciniana tesa a ridare centralità al Psi – indirizzo di segreteria, questo, precursore del craxismo -, lungi dall’apparire un’operazione di egemonismo partitico, l’ho sempre intepretata come la volontà di riaffermare il suo primato storico all’interno della sinistra; un primato, scritto nelle idealità e nelle ragioni di essere più profonde che sono alla base del cammino di essa lungo tutto il Novecento”.
Seguì l’intervento del nipote dell’ex sindaco,anch’egli di nome Giacomo, e, come da tradizione familiare, deputato socialista:
“La Cosenza che apprezzate, cari miei concittadini, e quella che verrà, perché non si può non rimanere fedeli a linee di sviluppo di siffatta grandezza, era tutta nella testa di mio nonno, già progettata nelle sue direttrici si dall’inizio del suo secondo mandato, sin dal ’97, per non dire dal ’93, quando fu eletto per la prima volta con un programma che si prefiggeva apertamente la rinascita della città. E non dico questo, miei concittadini, solo per il fatto che Mancini, tra le altre cose, è anche il padre della legge che dal ’67 impone l’obbligo del piano urbanistico per disegnare l’espansione di un’area urbana, ma perché i suoi archivi, i suoi cassetti, sono pieni di visioni grandiose che neppure il resto della sua giunta osa probabilmente immaginare, e di cui le opere pubbliche che già potete ammirare, sono solo un’anticipazione molto limitata: il Planetario, il Viale Parco, la nuovissima piazza XI Settembre, questa stessa piazza di Bruzi restituita ad una nuova dignità cosentina, la chiusura al traffico di corso Mazzini, per quanto siano realizzazioni sontuose dal punto di vista scenico e del dispendio di capacità tecniche, neppure rendono l’idea di ciò che aveva realmente in serbo per Cosenza il suo sindaco. Vedrete il ponte di Calatrava, vedrete un corso per il passeggio fatto come fosse una galleria d’arte, vedrete una metropolitana collegare Cosenza con i comuni limitrofi e fare da battistrada alla confluenza di essi nel territorio urbano della città, secondo il sogno di grandezza con cui Mancini la concepiva”.
La conclusione del momento di riflessione funebre fu affidato al figlio di Mancini, e padre del giovane Giacomo, Pietro, una persona di raro garbo che i cosentini avevano già imparatoa conoscere durante la sua sfortunata esperienza alla guida della città, all’inizio degli anni Novanta. Queste furono le sue parole:
“La particolare sensibilità estetica e ornamentale che mio padre ha avuto in questi anni nel gestire la crescita di Cosenza arriva da lontano, dalla sua stessa azione di governo: giacché tutti ricorderete con quale decisione impedì, da ministro del Lavori pubblici, la proliferazione della speculazione edilizia sulla Via Appia e nell’area archeologica dei templi di Agrigento, che i palazzinari avevano già individuato come bacino di sfogo per le loro brame di edificazione dopo il crollo di molte delle loro costruzioni abusive, in una rovinosa frana, nella parte nuova della città che si era sviluppata sin dal Medioevo attorno alla rocca posta su un’altura che domina i templi. Fu proprio in seguito alla legge voluta da mio padre per la preservazione ambientale e la regolazione urbanistica che nacque la Valle dei Templi così come la intendiamo oggi, cioè come zona archeologica protetta. E chi lo aveva ben definito il miglior ministro dei Lavori pubblici nella storia della Repubblica non lo aveva ancora visto all’opera nella sua città di nascita, sicché se non fosse stato naturalmente portato alla leadership, sarebbe probabilmente stato un ottimo politico di settore. Ma certo non avrebbe mai voluto augurarsi che la sorte ingrata, essendo egli ormai stato estromesso dai principali incarichi di partito da quel leader di cui egli stesso aveva fortemente caldeggiato l’ascesa, gli avrebbe riservato l’ultima stagione della vita per impiegare le sue capacità direttive di primo piano in un’azione politica proprio in quella direzione, confinata però all’esclusivo servizio di Cosenza”.
Quasi come ultimo segno di devozione nei suoi confronti, alle elezioni comunali del maggio seguente i cosentini votarono il candidato che Mancini aveva espressamente indicato per la sua successione, e cioè l’assessore Catizone, che, come per un segno del destino, deteneva in ambito comunale quelle competenze per le quali Mancini aveva rivelato il suo particolare talento nelle proprie esperienze governative.