Trattato è l’esposizione esaustiva di una materia; manuale è un trattato in forma ridotta; saggio è una trattazione, perlopiù monografica od oligotematica, finalizzata o a dimostrare la conoscenza dell’autore su un dato argomento, o a sviluppare conclusioni personali partendo da tesi oggettive: storicamente esso nasce nella forma del dialogo filosofico.
Se è vero che il manuale e il trattato, dei quali l’uno deriva dall’altro, hanno entrambi, in sostanza, un carattere divulgativo, è vero però che la differenza tra di essi sta in questo, che il manuale è una divulgazione condotta con toni didascalici, il trattato è una divulgazione condotta con la visione e il linguaggio, spesso fondativi, dello specialista. Ciò che distingue veramente il trattato dal saggio è invece il respiro del tema esposto, mentre dal punto di vista compositivo il modo di redigere un trattato non si discosta molto da come scrivere un saggio: simile è infatti lo stile oggettivo di questi due generi di testi, la scrittura estremamente sottolineante, che procede con un’andatura tesa ad argomentare con comodità.
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Agrippina diventò la moglie di Claudio, ma non fu la prima né tantomeno la donna che l’imperatore amò di più. In gioventù, quando ancora il pretestato aspirante storico che andava alla scuola di Tito Livio neppure sospettava di vestire i panni del princeps, egli era stato fidanzato con Livia Medullina, poi aveva sposato Elia Petina. Eppure, quell’intellettuale dalla mentalità modernista, amante della donna dal carattere dominatore ed emancipato, non poteva contentarsi di tenere al suo fianco l’anonima gentildonna romana matronescamente educata a stare sempre un passo indietro rispetto al consorte.
Amò profondamente Valeria Messalina perché sin dal primo momento sapeva che gli avrebbe avvelenato la mente lasciandolo col sorriso sulle labbra, intrigato dalla sua volontà adulterina e dalla sua raffinata pericolosità, capace di celare intenzioni mortali in cui egli stesso non poteva ritenersi non coinvolto. L’enorme coinvolgimento sessuale eccitato vieppiù dal timore libidinoso, sentimento tutto claudiano, che quella donna avrebbe potuto ucciderlo in qualsiasi momento, guardandolo negli occhi, durante o subito dopo un amplesso, non gli impedì però di generare con lei ben due figli, Britannico, che portava nel nome il ricordo glorioso della conquista dell’isola su cui il solo Cesare tra i romani aveva messo piede prima dei suoi eserciti, e Ottavia che, per una strana ironia della sorte, evocava, ogni volta che la si chiamava, l’immagine di una donna assolutamente antitetica alla madre, e che Claudio stesso non avrebbe esitato a ripudiare. Se Narciso non fosse intervenuto, facendo arrestare e uccidere l’imperatrice, a sventare la trama di un complotto contro Cesare collegato al matrimonio clandestino, ma pubblicamente celebrato in assenza di Claudio, tra Messalina e il console Caio Silio (preludio chic di sapore tipicamente messaliniano ad una manovra fatale), si può star sicuri che Claudio non avrebbe disdegnato di seguire gli sviluppi dell’affaire passionale della moglie, col suo solito autolesionismo depravato, e di pregustare l’incombenza del suo delitto, eccitandosi al solo pensiero di come in quel momento Messalina sarebbe stato presente o avrebbe agito a distanza.
Ma il vero cultore della femminilità sgualdrina non rimpiange la donna che ha perso, consapevole che una dama di morte rientra nella dimensione suprema del suo fascino quando la viscosità delle sue spire si essicca al variare della direzione della sorte, ma pensa a chi dovrà succederle. Agrippina gli piacque per un’ambizione discreta quanto ferocissima, che aveva tenuto copertanegli anni in cui era stata la docile moglie di Lucio Domizio Enobarbo. Ma quando salì a palazzo nel nuovo rango di imperatrice fu subito chiaro che si presentava non come la vedova di Enobarbo, bensì come la madre di Nerone. Il fatto che tutta l’ambizione di Agrippina fosse, in realtà, meramente volta a imporre e favorire l’ascesa al potere del figlio primogenito, dovette deludere amaramente Claudio, che sperava di trovare in lei una novella Messalina, disposta a puntare ella stessa al potere anche a costo di lasciare sul lastrico i figli, triturando amante su amante uno dopo l’altro. E rimpianse i giorni della sua semiramidina epopea. Tuttavia a coronare il sogno dell’imperatore, essere ucciso da una donna di audacia criminale, senza freni, doveva essere proprio questa signora bizantina e calcolatrice, poco appariscente ma tessitrice solerte, refrattaria alle manovre da scandalo ma indefessa nel lavorio del tarlo: giacché non dopo che mise piede nella reggia volle mettere a soqquadro l’ordine della casa e della casata, ma vi era già entrata intenzionata a eliminare due obiettivi precisi, il nuovo marito e il figlio Britannico. E, contro il piacere del consorte, lo condusse al momento che forse aveva atteso da una vita senza sedurlo, anche solo col sentore di movimenti insidiosi, né movimentando grossi sospetti nella preparazione di trappole o agguati artefatti, ma formulando il delitto perfetto come un omicidio di famiglia, con il semplice e accorto coinvolgimento nella causa imperiale di tutti i familiari e i famigli della casa imperiale; e il sogno di Claudio di una morte intrigante si specchiò, o si infranse, nel ghigno anafrodisiaco di uno stimolo voluttuoso che non teme l’allerta dell’uomo appassionato: ucciso per la gola, come non si aspettava, con il suo piatto preferito adulterato, ma senza sconvolgimento adulterino, come aveva sempre voluto. -
L’ordine cistercense fu fondato nel 1098 da San Roberto di Molesmes e prende il nome ,com’è noto,dalla forma latina del toponimo della città di Citeaux,Cistercium.Si tratta di una derivazione dell’ordine benedettino,nata da una spaccatura nelle file dei cluniacensi, ma rispetto a quello presenta,almeno nella lettera originale della sua regola,stabilita con la “Charta Charitatis” del 1119,un rigore spirituale più estremo,che proibiva perfino le attività di studio come distoglienti dalla preghiera e dal servizio di Dio.Sarà San Bernardo di Clairveaux(o Chiaravalle),l’esportatore dell’ordine nel resto dell’Europa,ad ammorbidire lo spirito dello statuto,e a renderlo più duttile ai piaceri della cultura e più fiducioso nella capacità di essa di essere bagaglio nella missione di Fede del cristiano. <>.(G. Marchese,La Badia di Sambucina,VI) Sicché San Bernardo si può definire,come lo considera Giuseppe Marchese,un secondo San Benedetto. Sulla scorta dello studio del Marchese,possiamo dividere la storia della Sambucina in quattro grandi periodi: -il periodo “bernardino”(1139-1192); -il periodo casamariense(1192-1421); -il periodo “commendatario”(1421-1580); -il periodo “priorale”(1580-1780). L’abbazia di Santa Maria della Sambucina fu fondata nel 1139 ed è il più antico insediamento cistercense nel Mezzogiorno d’Italia,emanazione diretta di Clairveaux e non,come vorrebbero altri studiosi,subcolonia dell’abbazia di Casamari.Lo prova un documento che il Marchese presenta come il fiore all’occhiello della sua ricerca sulla Sambucina:l’atto di donazione del monastero ai monaci da parte della famiglia feudale dei Lucji,nel 1140-41.Da esso risulta dunque che il complesso abbaziale era preesistente all’arrivo dei cistercensi,fondato dal conte Goffredo dei Lucji(Guffridus fundator Saboccinae,come si legge nell’atto),e destinato,a quanto sembra,ad accogliere San Bernardo in persona:ma il padre dell’ordine declinò l’invito,perché impegnato nei lavori del concilio di Sens,che proprio in quell’anno condannò in toto l’eresia di Abelardo(che aveva accostato la Trinità divina allo schema plotiniano),e inviò a guidare il nuovo centro monastico i suoi quattro “apostoli” provenienti da Moreruola in Spagna,Sigismondo,Ugone,Eligio e Pietro,protagonisti del periodo,per così dire,”bernardino” della storia dell’abbazia. A Sigismondo,primo abate del monastero,si deve,nel 1148,l’emanazione della costituzione originale della comunità abbaziale.Gli successe Antonio,che iniziò l’allargamento della giurisdizione territoriale del monastero acquisendo il controllo dell’abbazia di S. Maria del Corazzo,nel territorio di Catanzaro,da lui stesso fatta ricostruire nel 1157.Rimonta a Domenico,terzo abate in Sambucina,la fondazione,nel 1168, della prima subcolonia sambucinese,nel territorio di Messina,l’abbazia di S. Maria di Novara,affidata alla direzione di Ugone.La colonizzazione dei bernardini cratensi continua con i successivi abati Simeone e Guglielmo,quando ormai,soltanto nel Bruzio,il monastero è padrone di un’area territoriale che si stende da Acri fino a Corigliano.Sotto il rettorato di Guglielmo,nel 1186,il monastero ebbe a subire danni dal terremoto che sconvolse il Cosentino;la parte che ne uscì in macerie fu ricostruita con la collaborazione dei monaci casamariensi:ed è da questo momento che la Sambucina entra nell’orbita dell’abbazia laziale,fino a diventare una sua dipendenza vera e propria,per disposizione della bolla papale emessa da Celestino III nel 1192. Inizia così il periodo casamariense della storia sambucinese,durante il quale,pur avendo perso la sua autonomia,l’abbazia continuò comunque ad essere un punto di riferimento religioso e culturale della regione,grazie anche alla politica di favore nei confronti delle istituzioni monastiche attuata nel XIII secolo dalla casa regnante sveva,in continuità con quella dei Normanni.Ma è praticamente sotto Luca Campano,sesto abate sambucinese e futuro arcivescovo di Cosenza,che termina l’espansione territoriale del monastero con le subcolonie abbaziali di Acquaformosa(1197),nel Cassanese, e del Sagittario(1202),in Lucania,mentre a partire da lui gli abati si rivolgeranno più che altro all’ampliamento strutturale del complesso:è lo stesso Luca Campano a fondare lo scriptorium;gli farà seguito Nicolaus de Fullone nel 1302 fondando il seminario monastico,approvato da Bonifacio VIII,e nel 1315 Gualtiero Negen allargherà la biblioteca del Convento. Con la monarchia angioina l’atteggiamento di benevolenza nei confronti dei monasteri mutò tendenzialmente,puntando i sovrani francesi a riportare sotto la giurisdizione statale ,le arre territoriali controllate dai monasteri. Nel 1421,in seguito ai contrasti sorti a Casamari in merito alla direzione del monastero,il territorio dell’abbazia fu trasformato in commenda,cioè a dire,in senso ecclesiastico,un beneficio territoriale la cui titolarità resta nelle mani del concessore(la Chiesa,scilicet),e non passa al concessionario;la commenda fu retta prima da personalità di rango ecclesiastico e poi,dal 1552,dai duchi Caracciolo.Il commendatario era affiancato da un amministratore,che gestiva per conto di quegli i beni del monastero:di essi sempre più tesero ad avvantaggiarsi i commendatari stessi,specie quelli della famiglia Caracciolo,a tutto scorno dell’abbazia e dei monaci,della cui disciplina religiosa non c’era cura alcuna.Risale a questa età commendataria la terza della storia sambucinese,la visita di Carlo V al monastero.Nel 1569,il 5 marzo,una frana s abbatté sul monastero,risparmiandone solo l’ala abbaziale superiore e la Chiesa. A seguito di questo disastro,l’anno dopo,l’affidatario della commenda rinunciava al beneficio e restituiva l’abbazia ai cistercensi,che trasferirono i monaci e i beni superstiti alla Matina(già appartenuta ai benedettini,e ricostruita proprio da maestranze sambucinesi nel 1184),per tutto il tempo in cui procedettero i lavori di restauro,provvedendo,nel frattempo,ad unire i territori delle due abbazie.Questo stato di cose durò fino al 1580,quando,rimessa in piedi ormai la Sambucina,alla sua guida l’Ordine designò un Priore.E’ l’inizio dell’ “età priorale”,il crepuscolo della storia della Sambucina. I Priori più importanti furono Cesare Calepino,eletto nel 1624,che raddoppiò il numero dei monaci e riportò la Sambucina al regime della Regola,così da preparare la comunità all’accoglimento degli ordinamenti della nuova Congregazione cistercense di Calabria,approvata da Urbano VIII nel 1632( già a partire dal XV secolo infatti l’ordine si era frammentato in Italia in varie congregazioni regionali,come quella toscana di San Bernardo fondata nel 1547 o quella romana del 1623);e Vittorio Federico,che nel 1658 ottenne la restituzione dei beni ancora custoditi nella Matina.Dal terremoto del 1731 l’abbazia non si riprese mai più completamente;il 18 febbraio del 1780,per regio decreto,l’abbazia venne soppressa e i suoi beni in parte incamerati nel demanio e in parte spartiti tra le chiese di Luzzi e la Curia Vescovile di Bisignano.Gli ultimi beni rimasti furono venduti nel 1803 alla Famiglia Lupinacci,incluse alcune fabbriche del monastero. Alla fina dell’excursus storico sull’abbazia il problema di fondo che domina il saggio di Marchese resta quello delle sue origini:un problema che l’autore dibatte,con un approccio del tutto originale,in base ad una doppia argomentazione,cioè dal punto di vista filologico e da quello della storia dell’arte. A questo punto è bene anticipare in un abbozzo quelli che sono i tratti principali del modo di lavorare di Marchese,che potrebbero essere oggetto di un prossimo scritto:il suo merito principale,che ne fa uno storico degno di attenzione,è la raccolta di documenti di prima mano,effettuata con sopralluoghi diretti(non gli fu difficile accedere agli archivi storici comunali grazie alle responsabilità politiche che ebbe a ricoprire negli anni ’20-’30)o tramite contatti con amici studiosi.Lavoro d’archivio e confronto consultivo sulle fonti sono quindi i pilastri probativi del suo modo di scrivere storia,su cui egli innesta,come terzo elemento,quella che potremmo chiamare la “prova osservativa”,che rispecchia la reale capacità di Marchese “completare” i dati in suo possesso ricollegandoli al contesto storico generale attraverso uno sguardo fondato,anche stavolta,sul confronto,ad esempio,tra aspetti cronologici.Documentazione,confronto, ricontestualizzazione:è chiaro che.laddove manchi un supporto documentale robusto,anche l’acume ricontestualizzante si fa carente,ma nel caso del saggio sulla Sambucina quello che veramente dev’essere apprezzato è la capacità dell’autore di affermare il primato cronologico di essa sulle altre abbazie cistercensi del Meridione partendo dall’atto di donazione ricordato sopra,che il Marchese stesso rinvenne nell’archivio Firrao – Sanseverino. Ecco un bell’esempio del procedimento storiografico del Marchese:l’autore riporta il testo integrale dell’atto e lo pone in relazione all’accordo di Mignano del 1139,indicandolo come suo naturale antefatto.L’accordo,che chiudeva i contrasti tra San Bernardo e Ruggero II di Sicilia,dovuti all’elezione da parte del re normanno dell’antipapa Anacleto II in opposizione al legittimo pontefice Innocenzo II,sostenuto dal santo,apriva nello stesso tempo le terre del Regno all’insediamento di comunità cistercensi. Ora,considerato che,com’è naturale,non potevano esservi,per questa ragione,monasteri cistercensi al Sud prima del 1139(ve ne erano,semmai,molti dei benedettini neri,o benedettini propriamente detti),e dato anche che nel torno di tempo tra il 1139 e il 1141,cioè quello in cui la Sambucina vide la luce,non si ha notizia di altri monasteri meridionali di quell’ordine,l’abbazia cratense dev’essere stata per forza la prima.Il fatto,poi,che fosse stata edificata per accogliervi San Bernardo indica che,nelle intenzioni di Goffredo dei Lucji,essa doveva sancire la riconciliazione tra il re e il santo.E’ questo il risultato saliente dell’indagine di Marchese,il nerbo della sua trattazione.Il tentativo di spiegare il primato di anzianità della Sambucina anche attraverso il confronto con gli stili architettonici delle altre abbazie cistercensi meridionali,cioè attraverso una prova osservativa non suffragata da documenti d’archivio,non aggiunge nulla di nuovo alla tesi già centrata da Marchese,il che dimostra che il nostro si trovava particolarmente a suo agio davanti al dato filologico più che a quello artistico- archeologico.Ma è un limite che gli si può perdonare,dal momento che riesce a compensarlo ricorrendo ancora una volta al dato filologico:la sua idea infatti è che la Sambucina possa aver risentito dell’influsso del monaco – architetto Brunone,lo stesso che eresse la prima abbazia cistercense in Italia,quella di Chiaravalle in Lombardia nel 1135(e poi quella di Santa Maria del Chienti nel 1142).Infatti,prima che,in quel fatidico 1140,fosse consegnato l’atto di donazione ai monaci,San Bernardo inviò in Val di Crati alcuni monaci per effettuare un’ispezione della struttura abbadiale che avrebbe dovuto accoglierli:nella lettera di raccomandazione al re Ruggero in favore di essi il santo nomina espressamente un magistrum(cioè un architetto,incaricato di compiere la perizia edile della badia e di provvedere agli eventuali ritocchi)Brunonem,che il Marchese identifica senz’altro,data la coincidenza delle informazioni cronologiche,col costruttore dell’abbazia presso Milano. L’intelligenza filologica salva il Marchese dalla sua profanità di critico d’arte.
Gianluca Vivacqua, autunno 2003
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Nella visione del mondo degli scrittori tedeschi dell’otto- novecento c’è una problematica di fondo sottintesa alla tematica di ciascuno:il dissidio tra arte e vita.Questo dissidio si supera in base ad un compromesso,o lo si lascia emblematicamente irrisolto.Nella posizione del compromesso troviamo attestati,ciascuno all’interno del fervore spirituale della propria epoca,Thomas Mann e Johann Wolfgang Goethe;nella posizione del rifiuto risolutivo c’è,in modo massimamente rappresentativo,Franz Kafka. 1.Thomas Mann (1875-1955).Nato da una famiglia mercantile di Lubecca,si trasferì a Monaco dopo la morte del padre,iniziandosi all’attività letteraria e giornalistica.Premio Nobel nel ’29,fu esule dal ’33,morendo quindi in Svizzera nei pressi di Zurigo.Il nucleo fondamentale della tematica di Mann è formata da due motivi:il ruolo conflittuale dell’arte nella società borghese,e la decadenza della borghesia nei suoi modelli di perpetuazione familiare,sotto i colpi delle diverse tensioni individuali dettate dallo spirito e dai tempi (il modello – Buddenbrook:l’identità di una famiglia si disgrega,generazione dopo generazione,a causa dei differenti indirizzi morali e valori di vita dei capi famiglia).In questo nucleo si inserisce,dal1900 in poi,l’elemento della malattia che approfondisce,in tono catartico,il solito dissidio arte –vita e arte – epoca e tra presente individuale e presente reale(Morte a Venezia;La montagna incantata).In tale contrapposizione la soluzione di Mann è di tipo goethiano,con un compromesso tra le due parti in nome di una elevatezza del sapere e del sentire. 2.Holderlin (1770-1843).Indirizzato agli studi ecclesiastici,li abbandonò per dedicarsi alla poesia e all’attività di precettore presso varie famiglie di Francoforte,fra ui quella del banchiere Gontard,la cui moglie,Suzette,egli amò fino alla morte di lei.Si stabilì quindi come bibliotecario a Homburg,dove l’aggravarsi della sua instabilità mentale rese necessaria la sua messa in custodia presso il falegname Zimmer,con cui trascorse gli anni restanti della sua vita.Nella sua poesia si fonde una vena classicista – simbolista,che arriva a vagheggiare una nuova religione dell’umanità in un’età dell’oro in cui l’Ellade sarebbe rivissuta in Germania,e una vena malinconica,che canta il ritorno alla natura come rifugio. L’Iperione è il punto di fusione tra queste due pulsioni liriche. 3.Novalis (1772-1801).Allievo di Fichte e Schelling,si impiegò poi a Weissenfels nell’amministrazione delle miniere di sale.Sin dagli Inni alla notte compare la sua filosofia poetica dell’ “idealismo magico”:la capacità dello spirito di dominare la realtà con un atto di volontà in base alla fede del trionfo della poesia sulla realtà. 4.Von Kleist (1777-1811).Incarnò con la sua stessa figura il dissidio tra arte e vita,che si rispecchia anhe in molti suoi personaggi. 5.Goethe (1749 – 1832).A Strasburgo si accostò al gruppo dello Sturm und Drang,di cui divenne il principale esponente.Ciò che caratterizza l’opera del poeta,anziché un nucleo di temi,è un’ispirazione che matura e cambia orizzonti nelle varie fasi della vita,passando dalle posizioni romantiche delle origini a quelle ottimistico – borghesi dell’età matura.Il periodo dei Dolori del giovane Werther è quello del titanismo spirituale di stampo alfieriano;dall’Ifigenia in Tauride in poi (1779)Goethe passa ad un classicismo paganeggiante;a partire dalle Xenie(1796),scritte in collaborazione con lo Schiller,Goethe attua una sorta di compromesso tra aspirazioni artistiche e vita borghese che si realizza nella superiorità contemplativa dell’intellettuale. 6.Franz Kafka (1883-1924).Impiegato alle Assicurazioni Generali,iniziò l’attività letteraria a 30 anni su esortazione dell’amico Max Brod,ma in vita pubblicò solo una serie di racconti,dando poi ordine,nel sanatorio di Kierling,dove morì tubercolotico,che tutti i suoi lavori,specie quelli inediti,fossero distrutti.Ma è dalla contravvenzione di Brod a quest’ordine che la storia della letteratura ha guadagnato i tre romanzi più importanti di Kafka,America,Il Castello,Il Processo,nei quali egli enuclea il tema della vita come labirinto,in mezzo a cui l’uomo può soltanto girovagare all’infinito senza una vera speranza di libertà,e dunque senza una vera meta.
Gianluca Vivacqua, gennaio 2004
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All’origine della musica leggera italiana vi sono i patrimoni canori regionali e le canzonette del teatro d’avanspettacolo.
A queste due forme di canzone leggera si affiancò,dall’inizio del XX secolo e con una particolare intensificazione negli anni del fascismo,la canzonetta radiofonica,basata su un’impostazione vocale che tendeva il capo alla lirica e una tenuta ritmica accattivante e adatta alla diffusione.Delle tradizioni canore regionali la prima ad assumere dignità di scuola melodica,grazie anche alla letterarietà di alcuni suoi testi,fu quella napoletana.Fino alla fine degli anni ’50.,dunque,la scuola napoletana,assieme alla canzonettistica di matrice teatrale e radiofonica,la fece praticamente da padrona sulla scena della musica popolare italiana. Negli anni ’60 si afferma una nuova generazione di cantanti-intellettuali che si propone di cantare il sentimento in modo elegante e malinconico,senza gli edulcoramenti melodici del modello napoletaneggiante ma introducendo per la prima volta l’elemento del travaglio esistenziale:sono artisti,come Tenco,De André,Paoli,tutti provenienti dal territorio di Genova,sicché il loro movimento è denominato generalmente “scuola genovese”,ma,dato il suo peso culturale profondo e duraturo,esso costituisce più realmente un vero e proprio stile d’arte trasversale ad ogni connotazione regionale e cronologica,la cui atmosfera tematica informa l’opera dell’interprete più rappresentativo degli anni ’70,Lucio Battisti,e si prolunga in quella dei suoi epigoni e continuatori. Proprio negli anni ’70 Claudio Baglioni,romano,compie la svolta storica nella scelta del destinatario della musica popolare indirizzando l’immaginario poetico dei suoi brani d’amore più apertamente ad un pubblico adolescenziale e giovanile:da allora la musica leggera tenderà perlopiù a distaccarsi dal pubblico adulto per rivolgersi con specifica preferenza alla massa dei giovani.In questo decennio nasce anche la canzone politica,il cui maestro riconosciuto è Francesco Guccini,figlia del fervore degli anni della contestazione e dei rivolgimenti nella società italiana dovuti agli anni di piombo;dalla canzone politica muove un altro romano,Francesco De Gregori,per approfondire i toni della pittura sociale e storica,mentre Antonello Venditti,anch’egli romano,è una via di mezzo tra il cantante politico e il cantante sentimentalista,mantenendo una sorta di romantica e sognante ironia nei confronti dell’attualità sociale.Con Venditti,De Gregori e Baglioni,pur nella diversità delle loro tematiche,si può parlare di una “prima Scuola Romana”. Negli anni ’80 a Napoli una nuova generazione di cantanti e musicisti cresciuti con le inflessioni della musica blues e folk americana e internazionale la reinterpreta con spirito mediterraneo dando vita alla Nuova Scuola Napoletana:gli esponenti principali sono Eduardo Bennato,Pino Daniele,Tullio De Piscopo e Toni Esposito. Alla fine degli anni Novanta si afferma la cosiddetta “seconda Scuola Romana”:essa si lega alla prima per un’eredità vendittiana di fondo,che matura in una coscienza e quindi in una poesia musicale più tesa al disincanto,alla leggerezza,al gioco,orientata a dissociare l’intralcio buffo della vita dal proprio spirito,ma in realtà ha probabilmente come vero modello lo spirito anarchico – surreale di Rino Gaetano,cantante calabrese fiorito anch’egli negli anni ’70.A questo nuovo movimento appartengono,tra gli altri,Niccolò Fabi,Daniele Silvestri e Max Gazzé.
Gianluca Vivacqua 7 ottobre 2004