Dannato Maradona

Tratto dalla raccolta “Sei storie di quaderni” (https://www.amazon.it/Sei-storie-quaderni-Gianluca-Vivacqua-ebook/dp/B0791N6G52).

A lui il calcio, in fondo, non interessava. Ma agli altri sì.  E se portava in classe articoli di cartoleria che avessero qualche riferimento anche solo velato con la serie A, e magari con qualche squadra avversaria, erano guai.

Era il 1987. La Juventus era appena passata dalle capaci mani di Trapattoni a quelle altrettanto collaudate di Marchesi, ma il periodo d’oro sembrava finito. Platini era all’ultimo anno in bianconero: avrebbe chiuso col botto la carriera alla corte dell’Avvocato?

Appariva grigio l’orizzonte per gli juventini, non solo a Torino; le cricche degli amanti della zebra in tutta Italia si erano messe ad odiare colui che stava definitivamente oscurando l’astro di Roi Michel. Era un argentino, giocava per il Napoli già da qualche anno, era fresco di trionfo al Mundial messicano e il suo nome faceva venire a molti, molti avversari s’intende, la voglia improvvisa di scoprirsi grecisti: volentieri, infatti, ne riconducevano la radice a quella parola greca che significa “finocchio”, con tutte le possibili allusioni a margine. In realtà, però, egli era decisamente un maschione e per i vesuviani addirittura un dio; loro erano certi, sin dal 1984, che avrebbe finalmente dato al Napoli quelle soddisfazioni che neppure Achille Lauro e la sua megalomania erano riusciti a dar loro. E questa certezza, all’indomani della vittoria al mondiale, cresceva: per loro il fatto che si chiamasse Maradona significava soltanto che era il Fidippide che, prima o poi, li avrebbe portati a tagliare il traguardo dello scudetto alla fine di un’esaltante corsa.

Ma tutte queste cose a Luigi, che a quel tempo portava il fiocchetto rosso, non importavano assolutamente. La mamma gli comprava i quaderni e i quadernoni con l’immagine di Maradona e la scritta “Numero 10” senza fare particolarmente caso al soggetto: se anche ce ne fossero stati con Platini, glieli avrebbe ugualmente comprati.

Ma non ce n’erano, di Platini. Non ce ne erano stati mai, neppure negli anni dall’82 all’86, quelli dei grandi trionfi bianconeri trapattoniani, che avevano visto proprio il transalpino tra i protagonisti.

Invece per Maradona, tutto ad un tratto, sembrava essere scoppiata una sorta di mania collettiva: di sicuro l‘argentino poteva giovarsi del fatto di giocare in una piazza calorosa come Napoli, popolata di un’umanità per natura espansiva ed entusiasta. Torino, invece, con la sua aristocratica freddezza, sembrava sempre gioire con distacco delle sue vittorie, forse anche perché erano la routine. Eppure, se la Juventus era la più amata in tutto lo stivale, lo si doveva anche al fatto che, a partire dagli anni ’70, aveva imbarcato nel suo undici tanti giocatori di origine meridionale, un po’ come la Fiat stava facendo nei suoi stabilimenti. E dunque al fatto che, attorno alla Juventus, nascevano tante juventinità parallele, ad uso e consumo delle varie latitudini nazionali. Squadra di massa, una sorta di Dc del pallone, come poche altre (Milan, Inter). Il Napoli, invece, squadra identitaria, con un seguito concentrato nella sua area geografica ed antropologica, poteva ancora raccogliere il suo tifo intorno ad un’idea di comunità. E che comunità.

Ma non mancavano le exclaves. Specie in quel periodo. Fanatiche, certo, però con gioia, con allegria, senza prepotenza. Molte juventinità che gravitavano intorno alla Juve, invece, erano fanatiche in senso deleterio. Proprio come capitò di sperimentare in prima persona al povero Luigi, scambiato, con i suoi quaderni, per il rappresentante di un’exclave partenopea.

Le 9.00. Un’ora prima della ricreazione, era arrivato il momento di correggere gli esercizi di italiano. Luigi, intrepido, sfoderò dalla cartella il suo bravo quadernone “Numero 10”. Non era la prima volta che Raffaele e Massimiliano, la cricca dei centurioni zebrati, lo vedevano sul suo banco; ma forse si auguravano che potesse essere una meteora, un’apparizione-lampo, magari un incubo. Non passava giorno che i loro occhi si iniettassero un po’ più di sangue, alla vista di quel malefico strumento di scrittura. “Ma è davvero lui?” “Come si può accettare che davanti al nostro sguardo sfili una tal figura cotanto vergognosa?” Finita la verifica degli esercizi, che ognuno faceva direttamente dal suo posto recitando ad alta voce quanto, la sera prima, aveva svolto sul quaderno, la maestra, al suono della campanella, diede lo sciogliete le righe tanto atteso; e fu allora che i vendicatori bianconeri decisero di agire.

Luigi  aveva appena fatto in tempo a prendere da una tasca della cartella i crackers, salati in superficie, che si portava ogni mattina. Mangiava solo i crackers a scuola, nient’altro. Però non aveva ancora liberato il banco, e dunque il suo Maradona era ancora lì. “La vuoi smettere di portare quello sgorbio a scuola?”, fece Raffaele. “Ci sono anche i Masters”, fece Massimiliano con la sua erre moscia da sicario gentile. “Tu non ne sai niente di calcio”, continuò Raffaele, “quindi non puoi sapere che pazzia stai facendo a portarti quell’essere a scuola. Non te lo puoi immaginare”. Ė vero: a quei tempi a Luigi il calcio non interessava ancora. Dei tornei di football si sarebbe innamorato più tardi, e per una via assolutamente obliqua. Per un motivo, che era  connesso in profondità con la sua passione per gli itinerari turistici italiani, per il sistema-Bell’Italia, : il contesto storico, geografico ed artistico richiamato dalle città di appartenenza delle varie squadre, dunque, in un certo senso, lo sfondo culturale del campionato, la tavolozza di campanili e blasoni la cui configurazione non era mai uguale, da una stagione all’altra. Un itinerarium mutans, ed era così in serie A come in serie B e in serie C e nelle serie minori. Ė questo il bello del calcio in fondo per chi, come Luigi, sapeva ricondurre tutto il suo reale al bello della storia. Ma il pallone di cuoio e il mondo che vi si rifletteva, in quel momento,  non erano ancora entrati nel suo sistema di interessi. I tempi non erano ancora maturi. Ora, era destinato a vederne solo la faccia idiota, intollerante.

Disgraziatamente, sul banco, oltre al quaderno incriminato, Luigi aveva lasciato anche una penna Bic. Nera. Raffaele la afferrò, con quella stessa voracità con cui, tante volte, nelle merende fatte a casa di Luigi, aveva impugnato il cucchiaino per darci dentro con le Coppe Bianche. Era così, Luigi, silenzioso a scuola e parco (solo crackers), per poi trasformarsi in un principe gaudente a casa, felice di condividere con gli amici i suoi squisiti snack. Ma capita a tutti i principi felici di essere spesso generosi anche con chi non se lo merita: dov’era, adesso, la scioglievole dolcezza della panna e il gusto del cioccolato, venato di mistero? Quale delizioso scrupolo poteva frapporsi tra l’ospite sedotto, ingolosito da quella magnificenza, e un atto di giustizia barbara nei confronti del suo tifo inutile?

Tolse il cappuccio della Bic, e minacciosamente ne orientò la punta verso il quaderno. Verso una parte precisa di esso, il volto di Maradona. Quindi con la mano libera se lo trascinò alla portata della penna, e questa si abbatté sulla deprecata effigie con la violenza di una folgore. Di un uragano. Come una tromba d’aria che si ripete, rovinosamente compiaciuta, in mille circonvoluzioni. Che cosa resta di un campo di grano degli Stati Uniti dopo un tornado? Forse più o meno quello che restava di Maradona sulla copertina del quadernone di Luigi: una devastante visione, desolante. Dov’erano finite le gambe, le braccia del Pibe de Oro? Il volto riccioluto del giocoliere terribile? Non c’era rimasto che uno strano tronco azzurro con la scritta “Buitoni” a lasciar intuire la figura che poteva trovarsi rappresentata, su quella copertina. I tratti somatici del fuoriclasse argentino erano stati completamente risucchiati da nembi neri come la pece, inesorabili mulinelli di odio. Talmente calcati da lasciare un’impronta evidente, indelebile, anche sulla prima pagina del quaderno. “Maradona non ci piace”, fece Massimiliano come un notaio che prende atto dell’avvenuta esecuzione. “E tu non sai neanche chi è”, ribadì Raffaele. I due uscirono per qualche minuto dall’aula, felici come partigiani di Platini. Luigi rimase immobile, con le dita della destra che gli stavano sudando, mentre continuavano a stringere la carta plastificata dei crackers. Era colpa della Juve?, si chiese. Era colpa di Maradona?


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