La mentalità del perdente si fonda su due componenti psicologiche fondamentali: la paura di non avere abbastanza e la paura di poter perdere quello che si ha. Entrambe sono, in fondo, due forme di stress. La prima deriva dal vivere interiormente una sproporzione costante tra quello che si ha (che spesso è anche molto, ed è notevole) e quello che si desidererebbe avere. Chi ha paura di non avere abbastanza individua sempre una distanza notevole tra quello che già ha e quello che crede gli manchi. La seconda deriva da una mancanza di fiducia nel proprio futuro: chi teme di perdere quello che ha si vede, in prospettiva, già scalzato da qualcun altro che possa avere più di lui, e rendere quindi lui e quello che possiede (in termini di averi materiali o doti personali o realizzazioni) insignificanti o obsoleti o inutili o superati.
Ora, in condizioni normali questi sentimenti potrebbero anche avere un che di virtuoso, perché si arriva più in alto solo se ci si sente costantemente pungolati, per esempio ad evitare uno scenario futuro negativo. Il problema è che chi ha paura di non avere abbastanza, e di perdere quello che ha, soffre anche la pressione di un esempio esteriore deleterio: può essere, magari, qualcuno con cui ha avuto un’esperienza personale negativa e che, a distanza di un po’ di tempo, ritrova a livelli professionali o di attenzione pubblica maggiori di quanto egli credeva potesse avere o meritare (e soprattutto maggiori dei livelli in cui egli stesso sente di trovarsi). La base di questo sentimento è la disistima personale, che origina da una conoscenza deludente o dolorosa: all’apparenza questa disistima può essere scambiata per invidia, ma non ha niente a che fare con essa.
Comunque, si pensi o meno che il disprezzo sia invidia, il punto dolente è che nell’animo della persona negativamente colpita da quell’esempio si ingenera un meccanismo insano di competizione con se stessi, per colmare la distanza rispetto a dove quella persona si trova.
La competizione con se stessi, è facile intuirlo, è salutare solo se si ha la serenità di agire efficacemente entro gli effettivi margini di miglioramento di sé. Funziona anche se si sceglie di mettersi alla prova per dimostrare di essere all’altezza di un esempio esteriore positivo(come può essere un grande della storia o un personaggio la cui grandezza è talmente riconosciuta da essere esente o lontana da disprezzo). In tutti gli altri casi significa diventare come quel cane della favola di Esopo: quello che aveva già tutto, e cioè un fantastico e succoso pezzo di carne ma, per inseguire l’impressione frustrante di avere un pezzo meno grande di quello che gli sembrava avesse la sua immagine riflessa, finisce per perdere il suo bottino.
Se non si accetta che qualcuno che non si ritiene degno sia arrivato ad una posizione importante – posizione che, guarda caso, rientra anche nell’orizzonte quantomeno ideale delle nostre ambizioni – subito nella persona onestamente operosa scatta un sentimento particolare di frustrazione: si sente tradito dalla sorte. E, soprattutto, si sente in dovere di dimostrare a se stesso che sa subito mettersi in pari con quell’indegno, che gli sta togliendo spazio e visibilità. Qui sta la differenza con l’invidia: l’invidia quasi sempre è oziosa, e più che al cane che perde la carne è più simile alla volpe che non raggiunge l’uva. Non sarebbe disposta a far nulla di più di quanto gli aggradi fare, e quindi si trincera dietro la maldicenza e la cattiveria, che sono coperture meschine dell’indolenza.
Se c’è qualcosa di buono nell’invidioso, è che in fondo non è frustrato: gli basta fare come lo struzzo, e tirare avanti. Chi è frustrato, invece, si sente in colpa per aver permesso che una persona meno degna di lui arrivasse a qualcosa che è degno di lui, e perciò forza o altera – sull’onda di un’emotività tutt’altro che energizzante – quei naturali ritmi di comportamento produttivo che, fino a quel momento, gli avevano consentito di ottenere tutte le sue realizzazioni. E non c’è bisogno di scomodare i grandi maestri della spiritualità per poter affermare che solo la tranquillità dell’anima e la convinzione imperturbabile della propria abilità (anche migliorabile) conducono ai più grandi risultati. In realtà la reazione del frustrato può anche andare nel senso dell’inattività: dipende dalla misura in cui si sente offeso dal destino. Se l’indignazione è tanta, il frustrato potrebbe anche semplicemente decidere di abbandonarsi ad una cupa e orgogliosa depressione.
Lo dicevamo parlando del cane di Esopo: il problema, in fondo, sta tutto nell’immagine riflessa di sé. La persona che, in barba ai nostri parametri di stima, arriva laddove pensiamo sarebbe piuttosto nostro diritto arrivare, in quel momento sta attentando all’immagine riflessa che abbiamo di noi. Quella in base alla quale siamo sempre stati convinti che tutto ciò in cui ci sentiamo competenti e qualificati fosse il nostro mondo e dunque fosse anche a nostra esclusiva immagine e somiglianza. Checché se ne pensi, non c’è nulla di disdicevole nell’avere una concezione egocentrica dell’universo: per tanti aspetti, anzi, è una concezione virtuosa, e comunque cercare di scardinarla sarebbe una lesione dell’autocoscienza (e dunque un crimine). Anche se oggi non è politicamente corretto dirlo, l’egocentrismo è il vero marchio mentale dell’eccellenza e della volontà di eccellenza. È inevitabile che l’egocentrico sia molto sensibile alle minacce di usurpazione, perché agisce secondo un modello di mondo che vede lui al centro: il delitto però non è il vedersi al centro di tutto, bensì trovarsi (o essersi trovato) in un ambiente che ha messo pericolosamente in forse il proprio modello.
Stress e frustrazione sono sempre l’eredità di una passata esperienza in un ambiente traumatizzante o la conseguenza della sua frequentazione presente. Dunque, sono sempre legati all’ambiente. Ora, si fa presto a dire che si può sempre decidere di cambiare ambiente: nella realtà della vita, invece, tante volte non è possibile farlo. Per esempio è difficile cambiare una scuola, a meno che non ci siano motivi eccezionali per farlo, ed è anche difficile cambiare un ambiente di lavoro (ecco perché per molti un licenziamento è un punto di svolta). Spesso si è costretti a convivere con tutte quelle situazioni di disagio, di inadeguatezza, di imbarazzo che il nostro ambiente di riferimento, per quello che riguarda la nostra attività, ci provoca. E allora, come ci si salva? La soluzione sarebbe una soltanto, e cioè quella di non trovarsi neanche nella condizione di voler o dover cambiare ambiente. Bisognerebbe saper essere talmente furbi da riuscire a scegliere (meglio ancora: a fiutare) a monte l’ambiente più giusto per noi. Si dovrebbe saper valutare in anticipo i pro e i contro di una scelta ambientale, e onestamente c’è sempre il tempo per farlo.
Che significa saper trovare e frequentare gli ambienti più giusti per noi? Significa trovare il nostro successo. Significa avere a disposizione tutta quella rete di contatti, quella serie di opportunità, quella gamma di esperienze che, anziché frustrarla o mortificarla o infiacchirla, potenzieranno la nostra visione produttiva del mondo. La stimoleranno. Eppure – e questa non è una deminutio, tutt’altro – l’ambiente più giusto per noi potrebbe anche non essere necessariamente quello in cui siamo al centro di una grande rete sociale, ma semplicemente quello in cui abbiamo i margini di libertà sufficienti per agire come vogliamo noi, e coltivare le nostre iniziative. Quello in cui siamo al riparo da inutili tentazioni di porci in comparazione con chicchessia e possiamo davvero procedere sulle orme dei nostri migliori esempi. Essi non ci faranno mai pressioni, non ci metteranno mai in soggezione, non ci faranno mai sentire mancanti di qualcosa: semplicemente saranno ben lieti di guidare il nostro spirito, come un vento fresco di fine estate, per renderci simili a loro. Perché la vera grandezza, come la vera magnanimità, non ammette esclusioni: ama farsi emulare da tutti, ma illumina solo chi sa incamminarsi sui suoi sentieri.
Saper prendere esempio dalla vera grandezza significa anche essere in grado di superare la seconda paura, quella di perdere ciò che si ha. È sufficiente pensare a questo: lo scopo di chi ha è quello di dare, perché il vero possesso è ciò che un domani diventa memoria collettiva e patrimonio di utilità comune. Chi accresce risorse e averi per sé non è che un collezionista, e un domani non potrà sapere se la sua collezione sarà rivenduta da un qualche avido discendente. Chi invece pensa a un godimento futuro della comunità si assicura gratitudine eterna e imperituro ricordo. Anche in questo caso, chi pone le basi per dilatare la sua ricchezza attraverso i tempi non avrà paura di mettersi in competizione con qualcun altro: non si può perdere, infatti, ciò che è concepito e accresciuto per resistere al tempo e aumentare, anzi, di valore nel corso di esso.