Nell’iconografia del più celebre filosofo stoico romano spiccano due ritratti: uno è l’erma di bronzo conservata nel Museo Archeologico di Napoli, l’altro è il busto di marmo del Museo di arte antica di Berlino. Quest’ultimo è in realtà un busto bifronte, che accoppia il ritratto di Seneca a quello di Socrate. Nel ritratto di Napoli, di impostazione ellenistica, vediamo un filosofo con i capelli mossi, lo sguardo dolente, la barba non foltissima ma molto vissuta. Si potrebbe dire, abbiamo l’identikit del filosofo tipico, che però ad un’espressione imperturbabile e pensosa ha sostituito lo sgomento per la vita e per il futuro (prima di tutto il suo). Da questa raffigurazione deriva il celebre ritratto di Rubens, del XVI secolo, e il coevo busto marmoreo conservato a Madrid. Più tutte le varie imitazioni e rielaborazioni (sia pittoriche che scultoree).

In quello di Berlino, invece, vediamo un Seneca completamente diverso: non c’è più nulla del pensatore morale che proietta le sue angosce esistenziali nell’infinito con lo sguardo perso nel vuoto, soprattutto non c’è più neanche la barba (da sempre l’emblema del filosofo propriamente detto); c’è, in compenso, il volto disteso e anche piuttosto in carne di un aristocratico romano maturo, simile al tipo iconografico di Scipione l’Africano.
A parte una silhouette facilmente intuibile, questo Seneca è, nell’aspetto, un filosofo come Cicerone: capelli radi (con la stempiatura tipica degli ultra-cinquantenni), barba completamente rasata, volto tutto sommato sereno da uomo benestante che può permettersi agevolmente di fare attività intellettuali di alto livello, quindi senza traccia delle traversie interiori dell’intellettuale tutto impegno cogitativo e tribolazioni personali (vorremmo dire anche materiali, ma in fondo non è il caso di Seneca che, barba o meno, storicamente era davvero una persona abbiente: proprio come l’oratore di Arpino fu anche una personalità politica di primo piano).

Per come siamo abituati ad immaginare (e perché no, anche ad amare) un filosofo come Seneca, saremmo portati a credere (ce lo dice il cuore, in un certo senso) che il ritratto più somigliante del nostro sia quello del museo di Napoli. Il problema è questo: il ritratto disperato di Seneca (che è poi anche quello suo più famoso) in realtà è stato etichettato, e non da oggi, come uno pseudo-ritratto. Un’immagine idealizzata, in poche parole, per far sì che il suo aspetto venisse tramandato ai posteri con i cliché tipici dei filosofi della tradizione classica. Il vero Seneca è (sarebbe) proprio quello dell’erma bifronte di Berlino: lo proverebbe anche il fatto che a Cordova, la città natale del filosofo, la statua che gli è stata dedicata, in bronzo, ha più o meno le fattezze berlinesi. Questo comunque potrebbe anche soltanto significare che l’artista di questa statua si è ispirato, in qualche modo, all’artista dell’erma.

Però… c’è un però. Come abbiamo detto, l’erma di Seneca conservata a Berlino, di datazione a attribuzione incerte, è un’erma bifronte, e il “coinquilino” del nostro è un filosofo chiaramente noto per la sua stazza, e cioè Socrate. Sì, proprio lui, Socrate, l’irresistibile Bud Spencer ante litteram della filosofia maieutica.

Se si ha presente lo schema compositivo tipico delle erme a due facce non potrà sfuggire il fatto che, di norma (esistono comunque delle eccezioni, questo va detto subito), ad un personaggio barbuto se ne accosta un altro ugualmente barbuto (parimenti, ad uno glabro se ne accosta un altro con la medesima caratteristica). In questo senso l’erma di Berlino rappresenterebbe un caso particolare, o comunque un’eccezione notevole: a meno che in origine essa non dovesse essere come tutte le altre erme bifronti, e dunque dovesse presentare due personaggi di aspetto quasi uguale. Supponendo che sia Socrate l’elemento primario della coppia (cioè quello scolpito prima o da cui è partita la concezione dell’opera), è possibile che all’inizio anche la sua “seconda faccia”, per così dire, avesse la barba, e che in seguito, per una qualche ragione artistica, essa sia stata fatta scomparire. Inoltre, se è veramente Socrate l’elemento forte della coppia, si può anche sospettare che l’immagine dell’elemento debole abbia potuto subire la preminenza del primo, e che quindi, in poche parole, l’immagine di Seneca, nei suoi lineamenti generali, sia stata “socratizzata”. Ma, se è così, allora perché la barba sarebbe stata fatta scomparire (fermo restando che potrebbe non essere stata scolpita proprio, fin dall’inizio)? Una ragione plausibile potrebbe essere questa: che lo scultore condivideva quel programma culturale della syzygia, portato ai massimi livelli nel II sec. d.C. da Plutarco con le Vite parallele ma in atto già da molto prima nel mondo romano (basti pensare a Cornelio Nepote), che propagandava l’intima congiunzione tra romanità e grecità, in tutti i suoi aspetti (politica, cultura, pensiero, arte, lettere ecc.). Se ci si pensa, la syzygia è il fondamento teorico della nostra concezione del mondo classico (o quantomeno della sua concezione scolastica). Nel suo sistema si accosta un personaggio greco di eccellenza ad uno romano di pari eccellenza nello stesso campo. Dunque, sulla base di ciò, l’erma bifronte di Berlino avrebbe la particolarità di essere un’opera di syzygia scultorea, e in questo senso è davvero un unicum. Com’è ovvio, nella syzygia ciò che conta non è tanto la prossimità fisionomica, quanto, appunto, quella concernente il ruolo o la funzione. Si accosta un generale a un generale, un legislatore a un legislatore, uno statista a uno statista, a prescindere dalle reali somiglianze fisiche (e come potrebbe essere diversamente?).
Le Vite parallele, a ben guardare, non sono altro che una grande galleria di erme bifronti, con un protagonista della storia greca che “dà la nuca” ad uno della storia romana (e viceversa). Il nostro scultore potrebbe quindi aver tentato di realizzare la syzygia nel suo campo artistico, con quest’opera: con qualche ragione considerava Socrate il principale filosofo greco, e desiderava accostarlo al principale filosofo romano, cioè Seneca (non aveva tutti i torti: a parte le incursioni di Cicerone e di pochi altri, nel campo del pensiero speculativo, prima di Seneca, Roma aveva avuto pochi protagonisti). Dentro questo schema concettuale, poi, l’artista ci ha messo del suo: nel momento stesso in cui ha diversificato l’aspetto di Seneca dall’immagine di Socrate, togliendogli la barba e rendendolo quindi più simile al classico uomo pubblico romano, ha anche pensato bene di modellarne la complessione su quella dell’ateniese, per evidenziarne plasticamente il debito intellettuale: quasi come se volesse intendere che, senza le spalle di Socrate, Seneca non avrebbe potuto sviluppare il suo pensiero.
In conclusione, cercherò di aggiungere sul tavolo un argomento a favore del ritratto di Seneca più vicino all’immaginario collettivo. Vi chiedo di fare questo esercizio: andate a guardarvi su Internet una qualsiasi foto di Dario Argento.
Notate immediatamente il suo sguardo stralunato, tendenzialmente alienato anche quando sorride, i suoi capelli mossi, il suo volto scarno, consumato dalla troppa riflessione, forse, o dalla troppa attività immaginativa. È un filosofo? Non è detto che non lo sia, ma è prima di tutto un maestro cinematografico dell’horror. Andate adesso a riguardarvi l’espressione del “nostro” Seneca.

Fatto? Bene, adesso non vi resta che consultare una qualsiasi enciclopedia alla voce “Seneca”. Noterete che, quand’era in vita, più che come filosofo, egli in realtà era noto come avvocato, uomo politico e… scrittore di tragedie. Tragedie truculente, spesso molto avanti col gusto dei tempi sotto tale aspetto.
Va bene che i Romani erano abituati a spettacoli cruenti (vedansi gli spettacoli circensi) e nella tragedia classica morte e ineluttabilità del male sono due colonne, ma in Seneca l’elemento nero connesso al tragico viene esasperato con una certa compiaciuta – e vorremmo dire insolita – ricercatezza: per questo suo gusto teatrale Seneca era diventato noto molto prima che cominciasse a scrivere le sue opere stoiche (anche se gli studiosi pensano che il suo mondo teatrale debba comunque riconnettersi al pessimismo stoico), e se si fosse chiesto ad un Romano che cosa pensasse di lui, probabilmente avrebbe risposto così: È un maestro teatrale dell’horror. Vi chiedo ancora un ultimo sforzo, adesso: alla luce di quanto avete appreso, andate ancora una volta a vedere lo sguardo del Seneca dolente, angosciato. Che cosa vedete, adesso? Pensate quello che penso io? E se… l’espressione che abbiamo davanti non fosse quella di un filosofo, ma di un tragediografo horror che sta cercando l’ispirazione rivivendo un suo incubo? Se è così, il Seneca del museo di Napoli potrebbe essere proprio il vero Seneca, raffigurato in un momento di ispirazione creativa (o mentre è assalito dai suoi fantasmi creativi) al culmine della fama di autore teatrale “nero”.
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