Sherlock Holmes

E’ un Watson-dipendente lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie nella Londra del crimine massone-esoterico: senza la preziosa, e muscolare, collaborazione del suo amico-assistente, medico di professione e veterano della guerra afghana, il detective più famoso dell’Inghilterra vittoriana non muoverebbe un passo. Scordatevi, però, il compassato e vocazionalmente sedentario investigatore di Doyle, amante della chimica “da camera” e del violino: il violino strimpellato, certo, quello c’è, ma nel segugio a cui dà il volto un magnifico Robert Downey jr. le qualità intellettuali connaturate al personaggio sono notevolmente potenziate da un pizzico di pura maniacalità, merito o demerito di doti intuitive prolettico-organolettiche più simili a quelle di un medium; sicché la deduzione “elementare” di un ingegno lucido che ha una visione di sintesi dei particolari d’eccezione lascia il posto all’intuizione fulminante di un genio ossessionato dagli incastri e dai lampi retrospettivi, oltretutto al servizio di una baldanza fisica unita ad un sano amore per il pericolo e la vita scavezzacollo (si esibisce anche sul ring per il solo gusto dell’azzardo).
C’è da dire poi che questo Holmes non si gode per nulla il tempo libero con hobbies da investi-gentiluomo, ma anzi quando non è occupato si annoia, ed è capace di rinchiudersi in casa per giorni a lambiccarsi perlopiù in astruserie senza scopo e senza senso. Per quanto lo riguarda, infatti, il lavoro è tutto, e il suo aspetto più bello, dice lui, è che si possono scegliere i propri clienti e i propri casi: ma certo ad uno come lui non possono interessare se non quelli costruiti come puzzle o come piramidi, meglio se aventi al fondo un tessuto da ricomporre di implicazioni e coinvolgimenti, sotto un velo di mistero irrazionale, che rasenta il soprannaturale (il “flirt” tra Holmes e il paranormale era già il tema di un altro film dedicato alla sua figura, Piramide di paura, il racconto di un’impresa giovanile del detective, al temp studente di college). Watson, un elegantissimo Jude Law, è costantemente combattuto: da una parte non ne può proprio più di questa vita a rincorrere i pericoli in compagnia del suo amico esasperato dagli enigmi; lui anzi, da rispettabile dottore, vorrebbe prendere moglie e metter su famiglia, e sciogliere una volta per tutte quella famigerata ditta. Nello stesso tempo, però, ad ogni nuovo caso trova sempre qualche addentellato con la sua attività, e dunque una qualche occasione di sfida con sé stesso che lo induce a rimanere al fianco di Holmes; se così non fosse, ci penserebbe comunque proprio quest’ultimo a pungerlo nell’orgoglio se non addirittura a ricattarlo moralmente, facendo leva, ad esempio, sulle conseguenze che provocherebbe alla sua immagine professionale un’indagine che inficiasse una sua diagnosi o un suo referto. E già, il nostro detective sa anche leggere nei cuori, e “persuaderli” a passare dalla sua parte: ma sarà anche, e soprattutto, perché, come dicevamo, egli tiene a Watson almeno quanto ai misteri. E naturalmente poteva la donna da lui amata non nascondere anch’ella un mistero? E’ proprio così, infatti: la sua Irene (Rachel McAdams), ladra di mestiere, per onorare un vecchio contratto dagli oscuri contorni è costretta a fare il doppiogioco, e mentre lo aiuta a sbrogliare la matassa, lavora al servizio del suo nemico più implacabile, il prof. Moriarty. Si parla già di un sequel in cui ad interpretarlo sarà chiamato nientemeno che Brad Pitt.


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