Alberto Sordi intro

L’ultima volta che vedemmo Alberto Sordi in televisione fu pochi mesi prima della sua morte, in un programma pomeridiano di Raiuno: neanche più infastidito dalla richiesta di raccontare i suoi esordi e di proporre qualche numero degli inizi, come era rito ad ogni sua ospitata praticamente dall’inizio del millennio, ma anzi quasi succube di fronte alla sua giovane intervistatrice, patetico nella sua incapacità di trattenere in bocca delle briciole dopo aver addentato un pasticcino, era ormai lontano anni luce da quell’immagine di splendido sfottente che per decenni aveva dominato il piccolo schermo, riflesso gigionesco, spavaldo, quasi confidenziale della strabordante carica protagonistica di un mattatore cinematografico.
E poi, dopo la sua morte, anche l’onta di un ingeneroso epitaffio critico di Massimo Giletti, che certo non confessava solo una percezione personale, ma registrava quella di una buona fetta del pubblico italiano, sulla base di un assunto stereotipico: “Alberto Sordi… ce lo ricorderemo così, con quella sua maestria nell’interpretare quei personaggi sempre un po’ furbetti, un po’ cattivelli!” Come far morire due volte l’interprete più bravo di sempre del modo di essere dell’italiano, ma, beninteso, non dell’italiano di tutti i tempi né di ogni tipo di italiano: bensì dell’italiano del Dopoguerra, e del tipo più simile al carattere dello stesso attore. Cioè quello un po’ avventuriero e un pò fanfarone, un po’ velleitario e un po’ intrallazzatore, ma sempre dannatamente carismatico. In definitiva quello che era davvero Alberto Sordi, un’indole da spacconcello simpatico piallata, ma mai piegata, dalle difficoltà iniziali incontrate per sfondare come attore, l’obiettivo per cui sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa, sicuro com’era di avere dentro di sé i mezzi per imporsi.
La precisa delimitazione storica del suo personaggio è stata suggerita dallo stesso Sordi, che in più interviste ha usato la formula di “neorealismo comico”.


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