Sapevate che Andreotti amava prendersi gioco della r “francese” della moglie Livia costringendola, al telefono, pronunziare parole cariche di quella consonante, magari anche inventate, come “Trimarri” o “Vrigliari”? O che il giorno del rapimento di Moro vomitò, per l’angoscia? O che è ghiotto di caramelle “Rossana”? Sono alcuni dei lati minimalisti messi “svetonianamente” a nudo nella biografia che il giornalista dedica al più ineffabile dei protagonisti della storia d’Italia del dopoguerra, lo statista-Belzebù che agli occhi del diretto interessato è sempre apparso niente di più e niente di meno che un perfetto “italiano medio”. Quasi un Alberto Sordi della politica: un parallelismo, quello tra l’attore più popolare d’Italia e il politico più popolare d’Italia, che Franco sembra voler spingere fino in fondo – al di là dell’identità di origini e di passione calcistica tra i due – per affermare come stia proprio nella nazional-popolarità il segreto della longevità del fenomeno-Andreotti, nella sua medietas ostentata ed esasperata che lo rende ad un tempo così umano e così enigmatico.