Vidi Pavese per l’ultima volta due anni prima che si togliesse la vita, nel 1948; avevo straamato Il compagno e sentito un gran bene della Luna e i falò, che pure non avevo ancora letto. Lo trovai nel suo studio, gli occhiali sul tavolo, i capelli sconvolti, il sigaro al mento non ancora acceso, personalissima variante della postura del “pensatore”, più scompigliato che stanco, anzi stanco non lo vidi mai, neppure dopo delle ore chino con certi occhi cerchiati sotto le lenti. E neppure mai depresso, mai. Il male di vivere che lo vinse chissà da quale regione del suo io gli proveniva, o lo invase da chissà quale oceano del suo non-io.
“Lo sai, avevo imparato a pensare che voi calabresi aveste tutti una faccia scura, e scuramente sorridente, come frutti negri e dolcissimi. Questo almeno è il mio ricordo di Brancaleone.”
“E invece mi presento io, con questa faccia ossuta e paonazza da contadino della Val d’Ossola, giusto per aggiungere un volto in più ai fantasmi dell’immaginario che leghi alla tua madre terra.”
“No scusa, non è che abbia da ridire sulla calabritudo antropologica; è che in realtà la mia esperienza a Brancaleone non è davvero una cosa che si possa definire un’esperienza, anzi, direi, al fondo, nella mia vita, non c’è proprio alcuna esperienza da raccontare. La vita di uno scrittore non è vivere, descrivere la sensazione del vivere. I miei brancaleonesi sono l’immagine dell’umanità desolata che fa da cornice al mio isolamento. E in realtà non conosco nessuno, dal volto più caro a quello incrociato nel modo più casuale, che non abbia trasformato in qualcosa di traspersonale, cioè che abbia un valore intimo soltanto per me, ma che prescinde da qualsiasi reale confidenza con l’altro.”
“Vorresti dirmi che vivere non è scrivere e scrivere non è vivere?”
“E’ così in fondo: non lasciarti deviare da chi predica il binomio letteratura-vita. La vita si vive senza scrupolo, senza accuratezza, senza studio: non si vive col taccuino in mano, neanche allo scrittore, neppure a lui, è dato farlo, in prima battuta. Ma per lo scrivente c’è sempre una seconda battuta, che ritesse il vissuto nella pagina scritta; per il vivente invece conta solo la prima battuta, scorrere nel vissuto. Paradossalmente si può dire che lo scrivente vive abdicando, spesso, al vivere, stando al margine; ritirandosi. Ti chiederai se stia negando una reale partecipazione interiore dell’intellettuale all’esistenza umana?”
“In effetti è così.”
“Vorresti davvero dirmi che non ti sei mai chiesto per quale motivo mai un intellettuale decida di uscire dalla vita? Forse hai sempre pensato per depressione, per apatica, cinica insoddisfazione esistenziale? No, quando un intellettuale si dà la morte è perché sente che ormai non può più riordinare nel suo mondo interiore il caos dei sentimenti che proietta nel mondo esterno, e il mondo esterno stesso nella sua interezza. E’ quando sente questo cataclisma irreparabile, questa condizione insanabile,irriducibile, che arriva al passo decisivo. Chi ha detto che la scrittura migliora il mondo, secondo me, non ha ben pensato: la scrittura serve al massimo a salvare l’anima, e la coscienza, di chi scrive.”
Almeno fino a quando gli sia data la possibilità di trovare l’equilibrio tra lui e la realtà. Così concluse il mio amico, e non potei dargli torto. Era già precipitato nel caos che con i suoi mezzi letterari non poteva più arginare, e sentiva l’incombere slavinico, barbarico, santorinico, della distruzione del suo ordine cosmico con al centro la sua capacità di “ritessere il vissuto”. Nel suo subbuglio più profondo ebbe la più tenera pietà per se stesso.
Una replica a “Dialoghi con Pavese – Il tuo diario”
ricordo bellissimo.ottimo omaggio a pavese.
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