Porrettura o porrectura s.f. Arte del servire, spec. pietanze. Nel ‘700-‘800 gli stili principali di porrettura erano due: quello francese, che prevedeva che le pietanze dovessero essere portate dalla cucina tutte in una volta all’inizio del pasto, e disposte attorno al tavolo dei commensali, così che i servitori non abbandonassero mai i padroni e gli ospiti; e quello russo, da cui deriva in effetti la pratica del servizio moderna (pur ricalcando schemi di porrettura già in atto nei banchetti aristocratici degli antichi Romani), che voleva che ogni pietanza giungesse in tavola dalla cucina man mano che i commensali finivano quella precedente.
Autore: Gianluca Vivacqua
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Vidi Pavese per l’ultima volta due anni prima che si togliesse la vita, nel 1948; avevo straamato Il compagno e sentito un gran bene della Luna e i falò, che pure non avevo ancora letto. Lo trovai nel suo studio, gli occhiali sul tavolo, i capelli sconvolti, il sigaro al mento non ancora acceso, personalissima variante della postura del “pensatore”, più scompigliato che stanco, anzi stanco non lo vidi mai, neppure dopo delle ore chino con certi occhi cerchiati sotto le lenti. E neppure mai depresso, mai. Il male di vivere che lo vinse chissà da quale regione del suo io gli proveniva, o lo invase da chissà quale oceano del suo non-io.
“Lo sai, avevo imparato a pensare che voi calabresi aveste tutti una faccia scura, e scuramente sorridente, come frutti negri e dolcissimi. Questo almeno è il mio ricordo di Brancaleone.”
“E invece mi presento io, con questa faccia ossuta e paonazza da contadino della Val d’Ossola, giusto per aggiungere un volto in più ai fantasmi dell’immaginario che leghi alla tua madre terra.”
“No scusa, non è che abbia da ridire sulla calabritudo antropologica; è che in realtà la mia esperienza a Brancaleone non è davvero una cosa che si possa definire un’esperienza, anzi, direi, al fondo, nella mia vita, non c’è proprio alcuna esperienza da raccontare. La vita di uno scrittore non è vivere, descrivere la sensazione del vivere. I miei brancaleonesi sono l’immagine dell’umanità desolata che fa da cornice al mio isolamento. E in realtà non conosco nessuno, dal volto più caro a quello incrociato nel modo più casuale, che non abbia trasformato in qualcosa di traspersonale, cioè che abbia un valore intimo soltanto per me, ma che prescinde da qualsiasi reale confidenza con l’altro.”
“Vorresti dirmi che vivere non è scrivere e scrivere non è vivere?”
“E’ così in fondo: non lasciarti deviare da chi predica il binomio letteratura-vita. La vita si vive senza scrupolo, senza accuratezza, senza studio: non si vive col taccuino in mano, neanche allo scrittore, neppure a lui, è dato farlo, in prima battuta. Ma per lo scrivente c’è sempre una seconda battuta, che ritesse il vissuto nella pagina scritta; per il vivente invece conta solo la prima battuta, scorrere nel vissuto. Paradossalmente si può dire che lo scrivente vive abdicando, spesso, al vivere, stando al margine; ritirandosi. Ti chiederai se stia negando una reale partecipazione interiore dell’intellettuale all’esistenza umana?”
“In effetti è così.”
“Vorresti davvero dirmi che non ti sei mai chiesto per quale motivo mai un intellettuale decida di uscire dalla vita? Forse hai sempre pensato per depressione, per apatica, cinica insoddisfazione esistenziale? No, quando un intellettuale si dà la morte è perché sente che ormai non può più riordinare nel suo mondo interiore il caos dei sentimenti che proietta nel mondo esterno, e il mondo esterno stesso nella sua interezza. E’ quando sente questo cataclisma irreparabile, questa condizione insanabile,irriducibile, che arriva al passo decisivo. Chi ha detto che la scrittura migliora il mondo, secondo me, non ha ben pensato: la scrittura serve al massimo a salvare l’anima, e la coscienza, di chi scrive.”
Almeno fino a quando gli sia data la possibilità di trovare l’equilibrio tra lui e la realtà. Così concluse il mio amico, e non potei dargli torto. Era già precipitato nel caos che con i suoi mezzi letterari non poteva più arginare, e sentiva l’incombere slavinico, barbarico, santorinico, della distruzione del suo ordine cosmico con al centro la sua capacità di “ritessere il vissuto”. Nel suo subbuglio più profondo ebbe la più tenera pietà per se stesso. -
La notizia della morte di Mancini era corsa per la città già alle prime ore del pomeriggio di quell’8 aprile 2002; in realtà era noto da tempo ai cittadini che stesse male, costretto com’era sin dalla seconda metà del suo mandato di sindaco su una sedia a rotelle, sicché l’impressione ormai diffusa era che dominasse il Consiglio comunale facendosi a sua volta dominare, e che alla sua ombra comandassero nei fatti l’ambizione del suo assessore all’urbanistica, Eva Catizone, e quella del nipote suo omonimo, figlio di quel galantuomo che era stato anch’egli sindaco della città.
I suoi funerali si tennero nel sabato successivo alla morte, in una Cosenza già in piena atmosfera primaverile, nella piazza dei Bruzi adornata da quella fontana, opera di Mimmo Palladino, con l’elmo bruzio che proprio il sindaco aveva voluto per rappresentare l’identità cittadina. Al centro della piazza furono allestite due tribune, una per le riprese della televisione, l’altra per gli oratori chiamati a dare l’ultimo saluto a colui che i più giovani conoscevano come l’anziano sindaco di Cosenza, quelli che avevano superato i trent’anni come il politico che aveva fatto il Giornale di Calabria, gli ultraquarantenni come il segretario nazionale del Partito socialista e il ministro degli esecutivi del centrosinistra, e gli ultrasessantenni come il figlio del fondatore del Partito socialista a Cosenza. In particolare furono quattro le voci che si susseguirono sul palco: Piperno, Macaluso, il nipote e il figlio di Mancini. Secondo alcuni, presentendo il momento del trapasso, Mancini avrebbe avuto il tempo di disporre anche quali sarebbero dovuti essere gli oratori del suo funerale e in quale ordine avrebbero dovuto avvicendarsi. Sia consentito allo storico di non riferire testualmente quanto ciascuno di essi pronunciò, ma di rielaborarlo sulla base del concetto sostanziale espresso nei loro discorsi.
Il primo a prendere la parola fu quindi Franco Piperno, che era assessore alla cultura in quel tempo, così come all’epoca della prima giunta Mancini. Così parlò egli ad un dipresso:
“E’ mio dovere ricordare qui Mancini come un amico che mi diede protezione e rifugio nel momento più difficile della mia vita. A quel tempo, si era agli inizi degli Anni di Piombo, il gruppo intellettuale sovversivo di sinistra, che avevo fondato, si era macchiato dell’orrendo delitto dei due figli di un segretario missino, e quella fu la causa della su dissoluzione in pochissimo tempo:dei suoi membri chi, come Lojacono e Panzieri, considerati gli esecutori materiali della strage, venne arrestato; chi preferì una volontaria diaspora verso le Brigate Rosse; solo io, innocente non meno di altri nel gruppo del sangue versato, restai dov’ero, libero di tornare a stare al di fuori della militanza attiva. Data, anzi, l’esperienza che avevo maturato da dentro il fronte extraparlamentare, mi proposi come intermediario con gli estremisti che avevano sequestrato il presidente della DC Moro, estremisti le cui file, come ho detto, si erano ingrossate con l’afflusso di molti miei ex compagni, avendo come alleato a Montecitorio proprio Mancini e il Partito socialista, che su ispirazione del suo leader si oppose alla linea della fermezza contro il terrorismo. Ma gli strali di un’ingiusta persecuzione giudiziaria colpirono anche me alla fine del decennio, e fu solo grazie all’aiuto di quest’uomo la cui morte oggi celebriamo se potei evitare il carcere trovando asilo nella sua casa per poi espatriare in tutta sicurezza in Francia ed oltreoceano. Il tempo mi rese giustizia, ed in fondo al mio travaglio ritrovai ancora una volta questo mio grande amico, pronto ad offrirmi una nuova opportunità nella vita pubblica. E doveva ancora iniziare la sua odissea giudiziaria, così simile alla mia, per l’accusa di membri delle cosche reggine di essere colluso con le mafie locali; un riflesso pallido, ma devastante, dei processi del fermento tangentopolitano, così come la mia lo era stata del giustizialismo reazionario di quegli anni, e che, come nel mio caso, gli rubò anni fondamentali per non smettere di fare, ma non gli tolse l’energia per tornare ancora una volta protagonista da scagionato”.
Dopo di lui parlò Emanuele Macaluso, un vecchio esponente del Partito comunista:
“Dovete essere orgogliosi, cosentini, di aver avuto come sindaco un protagonista assoluto della politica italiana degli anni ’60 e ’70, ministro dei Lavori pubblici nel secondo e nel terzo governo Moro e nel primo e secondo governo Rumor, ministro del Mezzogiorno nel quinto governo Rumor, importatore del vaccino antipolio in Italia come ministro della Sanità nel primo governo Moro, e inventore dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, oltreché padre della vostra università. Eppure non vi dispiacerà accettare che Mancini non appartiene soltanto a voi, come cosentini, o a voi come militanti socialisti ed ex socialisti; ma a tutta la sinistra italiana, ben al di fuori dei confini di ciò che fu o di ciò che resta del Partito socialista, e quindi anche a noi, i cugini-rivali, qui rappresentati da me, che, per anzianità di militanza e di esperienze, mi sono guadagnato tra di essi il rango, di cui forse non sono degno, di padre nobile. La mia formazione politica, come saprete, l’ho compiuta tra le file del sindacato: lì in quella dimensione ebbi la fortuna, a quei tempi,di respirare un sentimento della sinistra del tutto avulso da quello che era il suo panorama politico-parlamentare: pallido era il riflesso delle spaccature, dei processi partitolitici; non c’era il comunista, non il socialista, e, se pure ci fossero state divisioni create da tessere diverse, esse si annullavano in una superiore unità di lotta e di intenti. Come all’origine della vicenda storica della sinistra, cioè, quando esisteva un solo partito, quello turatiano appunto, contornato da tante piccole associazioni a difesa dei lavoratori. Se c’è qualcosa che mi accomuna a Mancini, è quella di essermi sempre sentito un vero uomo di sinistra, al di sopra di un’etichetta particolare dovuta all’appartenenza ad una parte di tale area politica; e se posso darmi questa definizione lo devo, come ho detto, alla mia stessa educazione di politico, di matrice sindacale; a rendere tale Mancini, invece, era la sua identità socialista fin dalla culla, essendo egli il figlio del fondatore del Partito socialista a Cosenza. Ed è per questo che, dal mio punto di vista, l’azione manciniana tesa a ridare centralità al Psi – indirizzo di segreteria, questo, precursore del craxismo -, lungi dall’apparire un’operazione di egemonismo partitico, l’ho sempre intepretata come la volontà di riaffermare il suo primato storico all’interno della sinistra; un primato, scritto nelle idealità e nelle ragioni di essere più profonde che sono alla base del cammino di essa lungo tutto il Novecento”.
Seguì l’intervento del nipote dell’ex sindaco,anch’egli di nome Giacomo, e, come da tradizione familiare, deputato socialista:
“La Cosenza che apprezzate, cari miei concittadini, e quella che verrà, perché non si può non rimanere fedeli a linee di sviluppo di siffatta grandezza, era tutta nella testa di mio nonno, già progettata nelle sue direttrici si dall’inizio del suo secondo mandato, sin dal ’97, per non dire dal ’93, quando fu eletto per la prima volta con un programma che si prefiggeva apertamente la rinascita della città. E non dico questo, miei concittadini, solo per il fatto che Mancini, tra le altre cose, è anche il padre della legge che dal ’67 impone l’obbligo del piano urbanistico per disegnare l’espansione di un’area urbana, ma perché i suoi archivi, i suoi cassetti, sono pieni di visioni grandiose che neppure il resto della sua giunta osa probabilmente immaginare, e di cui le opere pubbliche che già potete ammirare, sono solo un’anticipazione molto limitata: il Planetario, il Viale Parco, la nuovissima piazza XI Settembre, questa stessa piazza di Bruzi restituita ad una nuova dignità cosentina, la chiusura al traffico di corso Mazzini, per quanto siano realizzazioni sontuose dal punto di vista scenico e del dispendio di capacità tecniche, neppure rendono l’idea di ciò che aveva realmente in serbo per Cosenza il suo sindaco. Vedrete il ponte di Calatrava, vedrete un corso per il passeggio fatto come fosse una galleria d’arte, vedrete una metropolitana collegare Cosenza con i comuni limitrofi e fare da battistrada alla confluenza di essi nel territorio urbano della città, secondo il sogno di grandezza con cui Mancini la concepiva”.
La conclusione del momento di riflessione funebre fu affidato al figlio di Mancini, e padre del giovane Giacomo, Pietro, una persona di raro garbo che i cosentini avevano già imparatoa conoscere durante la sua sfortunata esperienza alla guida della città, all’inizio degli anni Novanta. Queste furono le sue parole:
“La particolare sensibilità estetica e ornamentale che mio padre ha avuto in questi anni nel gestire la crescita di Cosenza arriva da lontano, dalla sua stessa azione di governo: giacché tutti ricorderete con quale decisione impedì, da ministro del Lavori pubblici, la proliferazione della speculazione edilizia sulla Via Appia e nell’area archeologica dei templi di Agrigento, che i palazzinari avevano già individuato come bacino di sfogo per le loro brame di edificazione dopo il crollo di molte delle loro costruzioni abusive, in una rovinosa frana, nella parte nuova della città che si era sviluppata sin dal Medioevo attorno alla rocca posta su un’altura che domina i templi. Fu proprio in seguito alla legge voluta da mio padre per la preservazione ambientale e la regolazione urbanistica che nacque la Valle dei Templi così come la intendiamo oggi, cioè come zona archeologica protetta. E chi lo aveva ben definito il miglior ministro dei Lavori pubblici nella storia della Repubblica non lo aveva ancora visto all’opera nella sua città di nascita, sicché se non fosse stato naturalmente portato alla leadership, sarebbe probabilmente stato un ottimo politico di settore. Ma certo non avrebbe mai voluto augurarsi che la sorte ingrata, essendo egli ormai stato estromesso dai principali incarichi di partito da quel leader di cui egli stesso aveva fortemente caldeggiato l’ascesa, gli avrebbe riservato l’ultima stagione della vita per impiegare le sue capacità direttive di primo piano in un’azione politica proprio in quella direzione, confinata però all’esclusivo servizio di Cosenza”.
Quasi come ultimo segno di devozione nei suoi confronti, alle elezioni comunali del maggio seguente i cosentini votarono il candidato che Mancini aveva espressamente indicato per la sua successione, e cioè l’assessore Catizone, che, come per un segno del destino, deteneva in ambito comunale quelle competenze per le quali Mancini aveva rivelato il suo particolare talento nelle proprie esperienze governative.
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-la profondità, cioè la sua possibilità di essere esplorata non solo nella sua facciata, ma anche in ciò che c’è dietro;
-la criticità oggettiva, per cui la notizia trova la sua efficacia, la sua violenza, nella sua stessa realtà, nella sua sostanzialità, così com’è, senza ulteriori costruzioni.
A questi tre caratteri se ne potrebbe aggiungere un quarto, la novità, per cui la notizia è sempre riferita a un fatto i cui sviluppi sono ancora in divenire.
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Avvertenza
Questa storia si basa su fatti realmente vissuti ed è di carattere autobiografico. I nomi delle persone sono stati intenzionalmente cambiati, in rispetto della salvaguardia delle identità personali. Il racconto è ambientato a Cosenza.
I.
Si dice che Johann Friedrich Meckel, anatomista tedesco vissuto a cavallo tre il ‘700 e l’800 (1781-1833) scoprì il diverticolo intestinale di cui è eponimo nel 1812, a 31 anni. Il medico–studioso era nipote del J. F. Meckel che fu celebre e celebrato ostetrico e medico di corte di Federico Guglielmo II (visse dal 1714 al 1778).
La notte dell’8 marzo 2006, per la seconda volta nella mia vita mi sembrò di essere andato davvero vicinissimo ad una reale percezione della morte: mi trovavo nella casa che già era stata di proprietà dei nonni materni, una rampa di scale più su del mio domicilio vero e proprio, e lì avevo appena finito di scaricare Quicktime, quando, papà ormai tornato giù (eravamo un po’ oltre la mezzanotte), il culmine di un mio improvviso malessere intestinale, già manifestatosi subito dopo cena con scariche diarroiche violente coniugate a un problema di emorroidi fu raggiunto,dopo che altre scariche con nuove perdite ematiche si erano susseguite con intensità crescente nel freddo bagno di sopra, con un annebbiamento improvviso e rapido della vista accompagnato da un indebolimento brusco dei sensi; una situazione terribile, mai provata prima, che mi portò per ben due volte ad accasciarmi al suolo, come in una mia personale passione, la prima all’ingresso della casa, poi in fuga barcollante verso il salone,dove si trova il computer su cui stavo lavorando,una nuova caduta proprio al cospetto del monitor, con una pesantezza tale da coinvolgere nella mia frana anche la sedia dove avevo appoggiato il giubbino.Non mi rimase altro da fare che chiudere il computer (lasciai a metà il download del trailer di Assault of Precinct 13, che stavo effettuando proprio per provare il nuovo programma), e ritirarmi in tutta fretta di sotto.
Un’esperienza simile non mi capitava dai tempi remoti dei miei febbroni bronchitici, quando, rimasto solo dopo che qualcuno malcautamente aveva chiuso la porta della camera da letto, dove giacevo in degenza, il mio così esulcerato sconforto incorniciato da uno stato febbrile giornalmente irrimediabile mi portò a esclamare “Non voglio morire” proprio al momento della riapertura della porta.II.
Dopo l’ultima crisi di svenimento,giovedì 9 marzo, si capì senza ulteriori fraintendimenti che il male aveva preso il sopravvento sul mio organismo: e pur accasciato al suolo,con la testa quasi confitta nel bidè, mi furono sufficienti poche gocce di acqua e zucchero per tornare in me quel tanto da prendere la decisione di dover fare qualcosa. Vista l’emergenza, mia madre chiamò direttamente a casa il dottor De Macceis, che per una volta depose il suo abituale riserbo attendistico e consigliò, oltre ad una terapia d’urgenza,uno specialista suo amico attivo alla clinica del Sacro Cuore, il dottor Parenti. Sfortunatamente però alle 19.15, quando varcammo la soglia della clinica (l’attacco di diarrea si era invece verificato alle 18.50), trovammo che il medico era andato via da dieci minuti, ma in compenso c’era una dottoressa di arcigna lucidità, che visto il mio pallore, stimò con ferocia che era molto probabile che non avrei passato la notte e che prima di ripresentarmi l’indomani in clinica per richiedere una colonscopia con Parenti sarebbe stato altamente preferibile andare al Pronto Soccorso dell’ospedale per un emocromo.
Non appena mi stesi sul lettino di quella che si può definire una vera e propria anticamera clinica dell’accettazione ospedaliera, intesi immediatamente che avevo cominciato il tragitto per il ricovero: passai prima per le mani di un giovane e allampanato medico,con un’espressione spavalda che mi ricordò lì per lì un qualche cugino mai digerito,che armeggiava con le sue provette del sangue all’ombra di due grezzi portariviste, in cartone, contenenti l’uno i fogli rossi e l’altro i fogli verdi dell’INAIL; dalla sua bocca scoprii che la mia emoglobina era scesa del 7,8 in seguito alle perdite delle notti precedenti. E ancora sarebbe scesa,fino addirittura al 5,9 nel corso di quella breve ma intensa trafila,montando sempre la stessa barella, a causa dei prelievi che mi furono fatti lungo la strada: il primo proprio ad opera del giovane medico,i l secondo dalla siringa di una bionda dottoressa che mi accusò di aver aspettato proprio il giovedì sera per andare al Pronto Soccorso in modo da costringerla ad onorare tutta notte il suo turno. Fu lei la prima a farmi sentire l’ago della puntura,lei a praticarmi il primo elettrocardiogramma (tachicardia,veniva confermata la notazione stetoscopica del primo medico), e sempre lei a proporre sostanzialmente il mio ricovero. Nel corso dell’operazione di prelievo la dottoressa mi collegò anche la prima flebo della mia esperienza ospedaliera, un flacone di Emagel: con essa fui parcheggiato in un corridoio dove svettava una targa in onore dei fondatori del nosocomio cosentino, tra i quali il podestà Tommaso Arnoni, in attesa di fare la rettoscopia, la mia prima visita ospedaliera “in studio”; un nuovo parcheggio in una stanzetta già occupata da tre anziane signore in barella preluse al ricovero vero e proprio,inaugurato immantinente da una visita già piuttosto importante, la gastroscopia: i due medici della sala sembravano, così paciosi, il presidente del Rende l’uno e un simpatico zio Otto (incrociato con Fabio Mussi) l’altro, ma si trattava in realtà di due simpaticoni dalle metodologie indagative spicce, se è vero che ricordo proprio le due visite di quell’adorabile coppia come le più cruente. La gastroscopia consisteva infatti nel ficcarmi, a mò di un famigerato cucchiaio del dottor Misuri (il mio vecchio pediatra, deceduto qualche giorno prima del mio ricovero), un cannello-sonda fin sotto la gola: benché i due mi avessero ben raccomandato di reprimere i conati di vomito che inevitabilmente avrei avvertito durante l’operazione, non ci riuscii e colorai il lettino operatorio con i resti di cernia che avevo mangiato a pranzo: ma lo stomaco fu trovato a posto.
Quando arrivai alla stanza già fissata per il mio soggiorno di degenza, nella sezione di chirurgia denominata “Docimo”, stanza occupata da circa venti giorni da un vecchio salumiere di Spezzano Piccolo con il figlio, già sapevo che sotto, in Pronto Soccorso, era stato comandato che dovessi fare due sacche di trasfusione e che da un giorno all’altro sarei stato trasferito al reparto di gastroenterologia, dov’era già stata stabilita la mia sistemazione permanente. Tutta quella notte passò quindi tra regolari prelievi e cambi di flaconi di flebo e borse di sangue, a cura di un infermiere solerte quanto incurante del riposo di un giovane malato: ma era questa, la solerzia disumana, una caratteristica che avrei imparato a conoscere presto negli infermieri.
La mattina di venerdì vidi per la prima volta il dispiegarsi di un’equipe di medici attorno al capezzale del paziente e far da corona al primario, roba da storie del dottor Tersilli: era questi il dottor Torraca, che non perse tempo a rispedirmi al reparto dov’ero stato predestinato dopo una visita sommaria,adducendo di presentire un sospetto di ulcera. L’altra ipotesi che fu formulata all’interno del suo gruppo fu quella del dott. Arrasi, che pensò ad una connessione tra il mio problema di sanguinamento e i vari capillari che costellano il mio torace anche a livello epidermico. Prima di cambiare alloggio di degenza ebbi modo di conoscere il frate della cappella ospedaliera.
A gastroenterologia mi era stata riservata una camerata popolata da cinque signori anziani della provincia di Cosenza: un po’ più tardi la giovane dottoressa che mi prese in consegna per il test nosologico preliminare si sarebbe scusata per l’inadeguatezza, in rapporto alla mia età, della sistemazione assegnatami. Ebbi subito la possibilità di apprezzare che il dott. Borghi,il delfino del primario di quel reparto, si prese particolarmente a cuore la mia odissea e soprattutto che agiva con la libertà di uno specialista privato, dal momento che il suo primario preferiva, alla visibilità autorevole di Torraca, l’irraggiungibilità di un essere aniconico. Borghi mi mise subito in lista per i colloqui di controllo con la sua assistente, che era una mia coetanea, una vecchia appassionata di storia che al momento di fare la scelta universitaria aveva però venduto le sue velleità al prezzo di una prospettiva di impiego più certo:la ragazza mi visitò non molto dopo il mio arrivo,e mi prescrisse un clistere per la mattina successiva. In quella stessa giornata consumai i miei ultimi pasti prima del lungo intervallo di digiuno che sarebbe scattato il dì seguente,a pranzo e a cena: e pagai il noleggio della televisione fino al lunedì successivo. Quel venerdì feci anche la mia prima flebo di ferro.
Ma il risveglio di sabato fu il momento più drammatico di tutta la mia permanenza in ospedale: svegliato di soprassalto alle sette (ma in ospedale non è una novità) da un’infermiera per l’abituale prelievo di sangue (me ne fecero tre al giorno fino a domenica) e per la consegna della provetta per l’esame coprometrico (papà, con scrupolosa improntitudine, ricordò anche che sarebbe stato bene fare l’esame delle urine, dal momento che all’altro reparto ne avevo lasciato immacolata la fialetta), da fare necessariamente prima delle otto e mezzo, l’orario del clistere. Andai al bagno debole e barcollante, già conscio di essere stato condannato ad un nuovo esborso ematico: e tuttavia forse quella versione “demo” del mio intestinale “imbarazzo” (se così vogliamo chiamarlo) non avrebbe avuto seguito se la signorina colpevole del mio risveglio (che tra l’altro non si degnò neppure di toccare le mie provette, delegando proprio a me la riposizione nell’apposita teca) mi avessero quasi sequestrato in bagno per iniettarmi tre clisteri in fila, uno dopo l’altro, che ebbero il potere di risvegliare in pochi minuti l’energia delle scariche di un’intera settimana: tornai in camera bianco come al momento del ricovero, ma stoicamente deciso a camminare per tentare in qualche modo di assorbire i rigurgiti dell’intestino: ma, nel tempo necessario per prendere le mie cose da bagno dall’armadietto, un’eruzione anale aveva già provocato una vistosa escrescenza sul dietro del pigiama, e saltellai in bagno senza più poter opporre resistenza agli scoppiettii sempre più continui che davano al mio fondoschiena la consistenza di una gobba. Arrivato in bagno, trovai che la mutanda era ormai diventata una pentola traboccante di un minestrone in eccesso di feci sugose e sangue, che inondarono i pantaloni e si sparsero sul suolo con un caratteristico retro-odore di legno bruciato: come già mi era capitato in quell’esecrabile martedì notte, la violenza della scarica esorbitò dal cerchio del water, e gocce di sangue sprizzarono sulle pareti: il sangue, ormai, lo si poteva calpestare (mi sporcai la suola di una delle pantofole) e toccare dappertutto, anche sul davanzale alto della finestra, dove, in assoluta mancanza di migliori soluzioni, avevo poggiato mutande pantaloni ancora suganti di sangue: ed un rigolo rosso scese giù per le mattonelle. La fortuna volle che in quel momento disperato si trovasse nell’atrio del bagno un signore dall’aspetto di un vecchio zio Sam, fragile come un mormone e paziente come un fachiro, che attendeva di entrare nel gabinetto dove mi ero impaludato per riprendersi una tanica, quella dove il medico gli aveva prescritto di urinare. Lo supplicai di chiamarmi un infermiere, che arrivò dopo pochi minuti: questi valutò la situazione senza batter ciglio e, alla seconda tornata, mi portò tutto quanto mi era necessario per il ricambio; e in più aggiunse tre lenzuola pulite, per dare una “pennellata” di bianco a quella vera e propria porcilaia intestinale. Tornai in camera più bianco che pria, portandomi dietro e addosso la puzza delle robe sporche che avevo messo in un’ecobusta,ma m’importava solo stendermi a letto, ed aspettare comodamente il culmine della mia agonia. Di lontano, poi, nel corridoio, sentii una donna delle pulizie che diceva alla compagna: “Vieni a vedere il bagno degli uomini, presto; è in condizioni…”, ma non finì la frase,c ome a intendere che vomitevole era forse l’unico aggettivo col bollino verde che si potesse applicare a quel nuovo stile “organic” che avevo imposto alla ritirata dove avevo messo piede. Nella stanza, quindi, le narici maliziose di un’infermiera cambia-lenzuola percepirono della puzza sulla mia schiena e dentro al mio armadio, e fu lei la stessa che,guardandomi come una cartolina panoramica, esclamò prima di andarsene: “troppo bianco quel guagliune!…”.
Informato degli sviluppi della vicenda dall’infermiere che mi aveva soccorso, Borghi si precipitò nella mia camera: messi da parte i dubbi confermò al giovanotto in camice per il primo la sua convinzione che la mia esperienza potesse essere classificata come un caso di diverticolo di Meckel. Si tratta di un residuo fisiologico dell’organismo dell’infanzia, non presente in tutti gli individui,che quando si trova ad aver a che fare con situazioni dovute ad una maturazione interna dell’organismo, com’è proprio dei ventenni,che sono in un’età in cui si suppone che lo sviluppo fisiologico sia ormai completato, manifesta il suo malessere pompando sangue ai danni dell’intestino, e ributtandolo nelle feci; diversamente può manifestarsi già da bambini, più o meno nelle stesse forme, quando, per converso, la maturazione fisiologica è ancora in fase aurorale. Dunque il diverticolo, per chi ha la ventura di esservi nato,si lega a due momenti critici della vita biologica dell’individuo, la prima infanzia e il periodo più immediatamente post-adolescenziale, quello in cui si stabilizzano drammaticamente i risultati dello sviluppo. Il dottore ordinò che mi venissero urgentemente praticate altre due trasfusioni di sangue; e che venissi quindi sottoposto senza colpo ferire a delle visite di scintigrafia e colonscopia, in vista di un’imminente operazione: ma prima che mi si rivolgesse direttamente, ebbi modo di scoprire,dal colloquio con un altro paziente della mia stanza, che Borghi è un appassionato di carpologia (conosce tutte le varietà di arance) e che ha ereditato dal padre la passione per i cavalli. Dalla camerata alla sala di scintigrafia e da questa a quella di colonscopia fui portato in barella, quasi per un mio maggiore imbarazzo personale,dall’infermiere con cui quella stessa mattina la signora cambia-lenzuola aveva condiviso le sue impressioni di puzza, e dal Bruno Lauzi (data la somiglianza del viso) a cui la sciaurata mi aveva indicato come mostro di bianchezza. Fu la visita di colonscopia,dove ritrovai il presidente Chiappetta e lo zio Otto-Fabio Mussi, più che quella di scintigrafia, dove interminabili minuti di fermo tra un rullo di distensione e una lampada fotografica servirono a scoprire che cuore, reni, stomaco, fegato, intestino e milza stavano bene,eccettuata una formazione sospetta tra l’aorta e l’uretere,a sentenziare, presente Borghi, che avevo proprio un diverticolo descritto dal dottore accompagnato da una risacca di sangue all’inguine. Lo scandaglio indelicato in cui si scorgeva la mano del buon vecchio zio Otto mi fece passare da sensazioni di termo-rigonfiamento della regione della vescica (che fortunatamente avevo già svuotato grazie al buon cuore di un rubicondo dottore della sala di scintigrafia che mi aveva accompagnato per mano al bagno) ad altre di dolore lancinante nelle parti laterali dell’addome: al termine della cruenta indagine mi aspettavo che la più sanguinolenta scarica diarroica della mia triste storia recente fuoriuscisse dal mio ano, ma inaspettatamente non successe niente, segno che forse il clistere aveva fatto effetto. Ai miei che mi aspettavano con ansia nel corridoio della camerata dall’alto della barella potei dire con soddisfazione che la causa era scoperta, che era il diverticolo di Meckel: poi passai subito ad inflebarmi di sangue e di un altro flacone di ferro.
Borghi aveva senza dubbio predisposto tutto per far sì che la mia operazione si celebrasse quella sera stessa: ma il chirurgo convocato per effettuarlo, il dottor Marafiori, si mostrò da subito scettico sulla possibilità di individuare immediatamente la zona incriminata in mezzo al sangue residuo che presumibilmente avrebbe trovato nella mia regione intestinale, e decise perciò di farmi sottoporre alla mia terza visita in un giorno,quella di angiografia, forse la più simile ad un intervento operatorio vero e proprio, come le mattonelle azzurre delle pareti introduttive della sala parevano preludere: gran cerimoniere della mia indagine fu il dottor Guazzini, uno scienziato formatosi in Valtellina, entusiasta del suo lavoro, in un modo molto simile a quello del professore che in Independence Day andava in sollucchero al pensiero di poter studiare da vicino gli alieni invasori; a modo suo anche tenebrosamente simpatico,con quel suo spiccato compiacimento nell’usare accenti terribilistici(“Il paziente può rifiutare o meno di passare quest’esame: ma l’ultima signora che ha rifiutato è morta tre mesi dopo!”). Per la prima volta una sonda penetrava nel mio corpo attraverso un’incisione praticata nell’arteria principale della zona pelvica collegata alla gamba destra: ma, dopo una serie di vampate indagative di calore che arrivarono ad avvolgere tutta la zona vescicale (che nel frattempo si era nuovamente riempita, come lo stesso Guazzini mi fece notare), e la soddisfazione di aver visto per la prima volta dal vivo il mio cuore, l’analisi non rilevò alcun vaso sanguigno sospetto: e, forte di questi risultati negativi, Marafiori, irrotto nella sala di andrologia, decise di rinunciare del tutto all’operazione. Nell’immediato mi si prospettava un periodo non esaltante di digiuno e, anche peggio, la minaccia di un periodo di trattenimento in ospedale ancora lungo, da “scontare” nella stessa stanza di chirurgia che mi aveva ospitato la prima notte, dove lo stesso Marafiori aveva disposto di ritrasferirmi, promettendomi un monitoraggio continuo e accurato, nell’attesa che, nel corso dei giorni, si potessero verificare quelle condizioni che egli auspicava per l’intervento.III.
La domenica, di fronte al signor Amento, il mio nuovo dirimpettaio, un gran parlatore ex camionista, ora ritiratosi a fare il contadino in una campagna vicino Montalto, chiamata Sant’Antonello, scoprii le torture del digiuno rese ancora più pesanti dalle sirene dei cibi nominati dalle infermiere-vivandiere nelle ore dei pasti (soprattutto della colazione, con quelle due opzioni che in quel momento mi sembravano così paradisiache: tè o latte ed orzo, l’eco delle quali mi tallonava da gastroenterologia; da laggiù mi portavo dietro anche l’immagine acustica dei menu personalizzati che una giovane infermiera-nutrizionista proponeva agli ospiti della stanza in via di normalizzazione, passando di letto in letto. Tra i fantasmi della mia agonia cosciente sentivo nominare,tra le altre pietanze, “sartò di riso”, “fettina di pollo” e “prosciutto e formaggio”). E il mio immaginario si riempiva di succhi di frutta in tetrapak, di snack e dessert freddi, di croissant, di caffellatte da bar, ma anche e soprattutto di acqua, che mi veniva negata parimenti a tutto il resto. L’unica cosa che non mi era negata erano i continui prelievi e il disturbo di reggere con le vene le mie sole fonti di nutrizione. L’iniezione di una penicillina, quella sera, per abbassare la febbre nel frattempo sopraggiunta, fu il punto-limite che fece debordare la mia trattenuta crisi di nervi. Eppure in mezzo a quella miseria ebbi l’opportunità di mettermi in testa l’idea che potessi adempiere proprio in ospedale, da malato e quindi senza bisogno di una preparazione coscienziale costruita, ad un dovere a cui da troppo tempo mancavo:la confessione.I l frate della cappella ospedaliera si presentò nuovamente ai miei occhi accompagnato dall’assistente con ostia e calice consacrati, proponendomi confessione e successiva comunione. Preso alla sprovvista, lì per lì dissi di no, ma la disponibilità del religioso mi colpì così tanto che mi decisi che nel corso della settimana avrei irrinunciabilmente avuto un appuntamento confessionale con lui.
L’unico che poteva convincere Marafiori ad operare subito era senza dubbio Torraca, che, con un’entrata risolutiva delle sue come quella del venerdì precedente,stabilì in quattro e quattr’otto che nel pomeriggio mi si dovesse fare una laparoscopia per accertare la presenza o meno di quel famoso diverticolo, e, se ci fosse stato realmente, di estrarlo senza perdere altro tempo: a me disse che aveva visto già altri casi come il mio, e che chiamassi a casa per sondare la disponibilità dei miei circa un’eventuale donazione di sangue in mio favore. Non ce ne fu comunque bisogno: quando i miei arrivarono, Torraca disse loro che in realtà la riserva ematica necessaria per l’intervento era già pronta, e che la richiesta era stata fatta a puro titolo informativo; pare che in quell’occasione il primario mi abbia largito dei miei complimenti,lodando il mio sereno stoicismo nei confronti del dolore. Ma in quel momento ero lontano dalla mia stanza,a fare le radiografie al torace, accompagnato con una sedia a rotelle come quando dovetti trasferirmi la prima volta da chirurgia a gastroenterologia (fu in quel frangente che,attraversando il corridoio dell’ufficio del primario, il dottore mi si fece incontro e mi carezzò la testa; un gesto di comparabile dolcezza ricordo di averlo ricevuto anche da Borghi, entrato nello studio della giovane dottoressa del suo reparto). Subii quindi un secondo elettrocardiogramma,ad opera di un dottore paffuto, Fiorigi, che avevo già notato nella prima visita dell’equipe di Torraca al mio capezzale. Il tragitto dalla stanza di degenza alla sala radiografie e viceversa diede forse il colpo di grazia alla febbre già latente nei giorni precedenti; ma io continuo a credere che lo zenith del mio stato febbrile lo raggiunsi la notte del venerdì, quando patii l’insonnia tragicamente crogiolandomi tra la sensazione di vomitare il pranzo e la cena che avevo consumato quel giorno con poco appetito,e la percezione di nuovi rimestamenti intestinali, che tempestosi mi promettevano nuove scariche per il dì avvenire. Ma in quelle ore ogni timore fisico naturalmente convergeva nell’emozione dell’imminente intervento, che ebbe luogo implacabilmente poco prima delle tre pomeridiane dopo un’anticamera in cui mi fu fatto l’ennesimo prelievo e l’anestesista mi richiese le generalità. Fu un’anticamera in tutti i sensi, dal momento che avvenne nella stanza antistante alla sala operatoria, di cui però non ebbi il tempo di vedere i particolari perché dopo qualche istante dal mio ingresso l’anestesista, con una sorta di lampada incantatrice, iniettò nelle mie labbra un vapore che mi fece precipitare nel sonno più completo. E pensare che mi aspettavo la classica puntura. Comunque, prima di perdere i sensi feci in tempo a rendermi conto che c’era anche lo scettico Marafiori nell’equipe dell’intervento, con tanto di regolamentare tenuta verde come il resto degli operanti. Ebbi anche il modo di scambiare quattro chiacchiere con un giovane chirurgo a proposito del tasso-limite di emoglobina che è possibile riscontrare all’interno di un essere umano: mi informò che per l’uomo è attestato su una quota variabile da 12 a 15, e che oltre questa quantità è quasi certo di rilevare nel sangue tracce di sostanze dopanti. Nell’anti-sala operatoria notai anche una di quelle tendine richiudibili che servono a delimitare l’area di intervento dal resto della stanza. Riuscii anche a recepire un’osservazione dell’anestesista,che è forse la chiave di tutta la mia situazione oculistica: “Noto che lei ha una pupilla più grande dell’altra”. Alla fine, a quel che mi dicono,sarebbe stato proprio Marafiori a togliere il diverticolo. Al mio risveglio mi trovai con un forte quanto improvviso mal di gola, e sulle prime pensai che si trattasse del tratto gutturale della sonda tubulare che partiva dal naso per arrivare allo stomaco, collegata ad un’altra fatta entrare direttamente da una delle due aperture della laparoscopia (era la stessa con cui nei giorni precedenti si era dovuto destreggiare il signor Amento): entrambe mi erano state inserite subito dopo l’intervento, l ’una per congregare i liquidi del siero, l’altra, quella che effettivamente mi dava fastidio, per aspirare i materiali residui dello stomaco e normalizzare i succhi gastrici. In effetti la causa del mio mal di gola era proprio quella, l’avevo azzeccata e i medici me ne diedero poi conferma, ma solo qualche giorno dopo: nelle ore restanti di quella giornata campale tastavo con la lingua la volta gutturale e non trovavo tracce di plastica, sicché mi convincevo che mi stavo trovando a lottare con una forma di influenza parallela alle mie vicissitudini cliniche. Con questo pensiero oscuro mi coricai, senza prender sonno, aspettando gli sviluppi del martedì.
All’alba dovetti presto rassegnarmi all’idea che mi aspettavano tempi di immobilismo full immersion, se è vero che una parte del corpo appena aperta e richiusa esige la sua massima inattività per almeno cinque-quattro giorni dall’intervento; ma non riuscivo a rammaricarmi per altro che per la circostanza di essere appena reduce da un periodo di semi-paralisi a cui ero stato costretto dall’imbracatura che mi era stata praticata ad andrografia (tra l’altro,una delle fasce adesive secondarie era arrivata a coprire integralmente i nei che ho in corrispondenza del fianco destro del torace, e fremevo all’idea che un qualche infermiere dai modi elefantiaci potesse staccarmeli con tutta la fascia;a trovarsi in tale incombenza fu però proprio Torraca in persona,nel corso della visita decisiva del lunedì; al mio sussulto “attenzione ai nei!” trovai che aveva già strappato in totale nonchalance, ma fortunatamente il neo più interno aveva retto all’attrito adesivo rimbalzando con l’elasticità di una Morositas). Il mal di gola aumentava, mentre le misurazioni della febbre, che da domenica si erano fatte regolari, davano un esito stazionario sul medio – alto. Tranquillante fu, in questo contesto clinico, l’intervento sul tardi del dottor Minuti,il Paolo Triestino delle corsie bruzie (scoprii poi che lo stesso attore Triestino aveva origini calabresi), che disse che era normale che la febbre si mantenesse alta come verifica del contraccolpo fisiologico di un intervento. Ma in quella stessa giornata ebbi anche la soddisfazione di ricevere la visita del dottor De Macceis, sulle quattro del pomeriggio, che si compiacque con sé stesso per la giustezza della sua tesi del diverticolo rotto (la mattina dello stesso giorno in cui mi ricoverai mi ero fatto visitare da lui, che azzardò la possibilità che potesse trattarsi proprio di un episodio del genere), e del frate confessore, che varcò la soglia della mia stanza verso le cinque dopo che alle tre avevo fatto richiesta all’infermiere che lo contattasse per me. Il frate tornò a trovarmi anche il dì successivo, dandomi la speranza che la mia clino-prigionia sarebbe finita se soltanto mi fosse stato cacciato,presto come lui auspicava, la sonda internasale; intanto nella notte tra martedì e mercoledì mi venne anche diminuito il numero delle flebo, che per la gran parte della notte non mi vennero più collegate, così come per le ore seguenti alle due del giorno successivo. Intanto anche il numero dei prelievi era sceso da tre a due già da lunedì.IV.
Mercoledì per la prima volta un altro medico dell’equipe di Torraca, anch’egli presente in sala operatoria, mise chiaramente in collegamento i miei mal di gola e raffreddore (la notte tra martedì e mercoledì avevo espettorato abbondantemente, senza che per questo l’intensità del dolore gutturale diminuisse) con la presenza della sonda internasale attraverso le mie vie respiratorio-digestive. Ma il neo che aveva retto alla furia sillana di Torraca cedette alla freddezza paternalistica del dott. Minuti, che staccò di potenza la fascia laterale a quella che chiudeva l’incisione chirurgica, quella in cui cioè andava a ricadere la zona anatomica dei miei due compagni di vita, proprio nel momento in cui mi annunciava che il mio emocromo era ormai ampiamente stabilizzato: potei solo fargli osservare che quel cratere sanguinolento che egli aveva avuto il potere di creare col suo strappo una volta era un neo, ed egli mi rispose, con ottimismo impune, che c’era ancora, sì, ridotto a quel misero cratere. Nel pomeriggio di quel giorno arrivò un nuovo ospite nella mia stanza, un ragazzo alto, dalla carnagione mora, accompagnato dai suoi genitori. Pochi minuti dopo l’ultima misurazione termica giornaliera mi dà la conferma di aver raggiunto il culmine assoluto della mia “febbrilità” durante il soggiorno ospedaliero:38°,6. Il mio nuovo compagno di stanza,ammalato di appendicite, si lamentò per buona parte del tempo anche dopo l’operazione, finché non gli fu dato un calmante. La notte seguente constatai piacevolmente che la mia frequenza di espettoramento era migliorata, preludio di un abbassamento significativo di temperatura la mattina di giovedì 16:37°,2. Mi rodeva però pensare che il mio compagno di dolori, ricoverato solo il giorno precedente con una febbre sfiorante i 40°, quella mattina stesse anche meglio di me, con due linee di febbre in meno. Ma il pomeriggio pareggiammo,raggiungendomi egli alla mia gradazione, che anche nella misurazione serale era risultata la medesima. Anche la pressione(10,8) e l’emocromo(9,1) erano migliorati; il dottor Torraca decise allora di farmi fare un clistere, il cui esito fu assolutamente incoraggiante: non vi riconobbi, infatti, tracce di sangue di una qualche evidenza. Ma il dott. Minuti con un altro strappo brusco, durante una nuova operazione di disinfezione delle ferite dell’intervento, mi staccò anche il compagno del neo già eradicato. In quello stesso giorno i prelievi di sangue prescrittimi mi furono ulteriormente decurtati da due a uno, ed ebbi modo di mettere a fuoco per la prima volta la camminata del mio compagno di stanza all’entrata e all’uscita dal bagno come del tutto simile a quella di uno zombie. La notte seguente poi scoprii quante voci hanno le tenebre in corsia: cellulari irrisposti,guaiti di donne disperatamente inchiodate ai materassi, un battibecco burocratico-competenziale tra infermiere, che si scambiavano e si moltiplicavano nell’aere, sfumandosi e amplificandosi a rimbalzo.
La mattina di venerdì mi si ripropose ancora il dramma dell’invidia:il mio compagno, dopo aver bellamente sorseggiato un bicchiere d’acqua di plastica trasparente, fu addirittura lodato dal termometro con un bel 36°,6; io che seguitavo a rassegnarmi negli stenti del digiuno (era il settimo giorno di astinenza da sabato) mi trovai addirittura penalizzato di due linee in più. Nel frattempo anche il numero delle flebo continuava ad assottigliarsi: doppia somministrazione la mattina, doppia la sera, distanziate da un lungo intervallo di tempo pomeridiano e senza protrazioni notturne. Era ormai tale e tanta la mia pratica di flebo,che decisi di lasciare su un taccuino un breve cenno di flebologia:scrissi che li flebo si distinguono in flebo chiare (soluzioni acquose di sostanze leggere,che non modificano l’aspetto cristallino dell’acqua) e flebo scure (soluzioni acquose di sostanze pesanti,che interagiscono cromaticamente con l’acqua); data la pesantezza della loro composizione, le flebo scure sono anche quelle a goccia più lenta; cocktail è poi il nome di una flebo composta da una miscela di più sostanze. Venerdì mi fu tolta anche la sonda internasale, quella maledetta sonda internasale, per l’espulsione dei detriti organici dello stomaco e la fluidificazione dei succhi gastrici: e il mal di gola come per magia mi si rabbonì.
Quando anche il mio ultimo compagno di stanza se ne andò,mi ritrovai nuovamente a respirare la solitudine della mia avventura. Chi mi vuole male?Cosa ho fatto di sbagliato? Perché doveva capitarmi un periodo di impostazione così vitale come quella di volata alla tesi? Si può veramente diventare persone di successo dopo aver vissuto, anche a patto di averle superate,esperienze così debilitanti? E perché rinunciare ai miei sani piaceri alimentari di una parte così interessante di marzo per colpa di un guastatore dell’intestino spuntato da chissà dove? Verso la fine della giornata iniziò a insorgere in me un insopprimibile desiderio di grattarmi, dapprima nelle zone vicine alle ferite dell’intervento chirurgico,poi per tutto il corpo, segno che il corpo stesso si era risvegliato dall’ovatta dell’anestesia ed aveva ripreso la propria vitalità. Nel frattempo, poi, sin dal giorno della prima sostituzione delle sacche terminali dei tubi-sonda, cosa confermata anche quel venerdì con la rimozione del tubo della sacca gastrica, quasi soffrii di non sentire più quell’inestinguibile desiderio di bere che mi aveva accompagnato nella chiusura della scorsa settimana. La notte di sabato arrivò un nuovo ospite della stanza: un uomo brizzolato, baffuto, che conobbi meglio nel corso della mattinata. Ex impiegato dei Trasporti, il signor Del Mare, così si chiamava, padre di quattro figli e già nonno, era un appassionato di musica leggera e nel tempo libero mi rivelò di fare il fonico per diletto. Da me stesso invece scoprii che avevo a che fare con uomo dal temperamento allegro di raro vigore. Ricoverato a causa di dolori alla cistifellea, ai medici dichiarò di essersi sentito male “per due panini particolari”. All’alba, intanto, avevo vinto in temperatura segnando sul termometro 36°,2, ed ebbi la concessione dai quartieri alti di una scodella di tè;e mi fu fatta una sola flebo mattutina, anche se le dosi furono poi riequilibrate nel corso della serata, sicché al tramonto facevo già la seconda,e ne seguì anche una terza. Allora per la prima volta nel corso del rituale riordino dei letti, mi sembrò che la coperta marrone fra le due lenzuola bianche fosse come una fetta di carne tra due strati di formaggio fuso.
Verso le dieci il dott. Minuti ritenne di non dovermi togliere la sacca di siero, ma solo di sostituirla; e interpretò la causa del mio prurito come un’allergia estesa dovuta, probabilmente, al contatto con la pelle delle garze di protezione delle ferite. Dopo la quarta operazione di disinfezione, i miei nei erano ormai diventati come delle stelle scoppiate, ridotti a lingue di sangue lungo il loro vecchio fianco senza più nucleo. Il meridiano sopralluogo di Torraca decretò il mio diritto ad un brodino: finiva così definitivamente il mio periodo di digiuno durato una lunga settimana, troppo lunga settimana. Alle sedici e venti dalla bocca del dott. Fiorigi arrivò l’annuncio che mi aspettavo dal primario: sarei stato dimesso la mattina seguente, tutt’al più il pomeriggio, ma nessuno sconto sull’applicazione del tubo del siero al fianco senza nei, nessuna osservazione di respiro minutiano sulla reazione dell’epidermide ai medicinali e alle fasciature dell’intervento, nessun saluto di commiato: mi diede la gioia della libertà come un gigante di pietra.
A sera una nuova rivelazione ospedaliera: l’infermiere,quello che mi fece da custode sin dalla prima notte,mi confessò che impressione aveva avuto di me nel corso di quell’intensissimo tour de force antelucano: “A dir la verità mi avevi fatto paura”, alludendo certamente al mio pallore, “pensavo non ce la facessi”,ma lo aveva indotto la mia osservazione ironica a dir così, “a dirla tutta mi è venuto in mente che tu fossi un drogato!”. Un drogato! Ma allora quante persone che mi erano sembrate gentili e disponibili con me si comportavano in realtà in modo guardingo nei miei confronti, immaginando di me chissà cosa!
L’ultima notte fu turbata dal russare imperioso del signor Del Mare (una “pericolosità” di cui lo stesso mi aveva preventivamente avvertito). Al mattino ricevetti la comunione, come avevo desiderato, ma non dalle mani del frate della cappella ospedaliera,secondo le mie aspettative, bensì da quelle di una sorta di strizzacervelli religiosa, una vera e propria infermiera grassoccia della fede,che imbastì esclusivamente per me una mini-messa col Confiteor ed estratti della lettura evangelica, citati a memoria, per la parte introduttiva, e il Padre Nostro contornato da qualche formula di accompagnamento quale corpo centrale; poi tirò fuori da un portapillole placcato l’ostia consacrata (quel piccolo contenitore, che tendeva a restringersi verso il fondo, poteva in realtà contenerne solo una) e mi rifece nuovamente partecipe di un rito a cui mancavo da ben troppo tempo. Prima del suo arrivo, mi avevano concesso di accompagnare al mio secondo tè mattutino un paio di fette biscottate, quindi feci la flebo mattutina monodose, come il giorno precedente. Alle dieci e quarantacinque,la vera vittoria: feci di colore normale, non indotte da clisteri, come fossi un parente di un paziente dell’ospedale ritiratosi un momento in bagno. Un po’ dopo venne il dottor Fiorigi con due assistenti per recidere gli ultimi ceppi della mia prigionia e cambiare nuovamente le fasciature. Mi sentivo un pugno nello stomaco già da dopo la colazione (segno che lo stomaco era ormai disabituato alle “emozioni” della nutrizione), e l’intervento degli uomini di Fiorigi peggiorò la situazione; Scorsano addirittura, sempre lui, il custode della prima notte, sembrò provarci gusto a contrarre lo strappo dei cerotti della fascia sopra la zona ex-nei, quasi a produrre l’effetto di un pizzicotto ustionante. Il medico mi confermò poi la decisione di dimettermi entro quel pomeriggio: e dunque me ne sarei andato così, senza mettere il palmo in quello di Marafiori e Torraca, praticamente la storia del mio ricovero,quasi clandestinamente,negato del diritto di ripassare in rassegna il senso profondo della mia esperienza. Ma forse il senso in fondo a tutta questa vicenda ospedaliera,dopo due nei persi, gomiti e polsi crivellati senza risparmio,un addome forato da due parti, e una regione ombelicale penetrata come in uno scavo, è che posso dire nella sostanza di aver preso coscienza di avere operato, meditato, concepito per un arco non lungo ma significativo di giorni con una pressione sanguigna tendente al basso e un emocromo non superiore a 10: dunque per un po’ di tempo si erano verificate in me quelle condizioni di complessione e temperatura corporea degne dell’autentico “intellettuale pallido”, e questo aspetto, ad una lettura posteriore, mi dà l’ardire di scorgere del buono anche in mezzo ad attimi dove l’eclissi della personalità pensante era pressoché totale. E, la cosa probabilmente davvero fondamentale, con la recisione (o l’estrazione, che dir si voglia) del diverticolo di Meckel ho tagliato l’ultimo residuo legame con l’infanzia. -
L’ordine cistercense fu fondato nel 1098 da San Roberto di Molesmes e prende il nome ,com’è noto,dalla forma latina del toponimo della città di Citeaux,Cistercium.Si tratta di una derivazione dell’ordine benedettino,nata da una spaccatura nelle file dei cluniacensi, ma rispetto a quello presenta,almeno nella lettera originale della sua regola,stabilita con la “Charta Charitatis” del 1119,un rigore spirituale più estremo,che proibiva perfino le attività di studio come distoglienti dalla preghiera e dal servizio di Dio.Sarà San Bernardo di Clairveaux(o Chiaravalle),l’esportatore dell’ordine nel resto dell’Europa,ad ammorbidire lo spirito dello statuto,e a renderlo più duttile ai piaceri della cultura e più fiducioso nella capacità di essa di essere bagaglio nella missione di Fede del cristiano. <>.(G. Marchese,La Badia di Sambucina,VI) Sicché San Bernardo si può definire,come lo considera Giuseppe Marchese,un secondo San Benedetto. Sulla scorta dello studio del Marchese,possiamo dividere la storia della Sambucina in quattro grandi periodi: -il periodo “bernardino”(1139-1192); -il periodo casamariense(1192-1421); -il periodo “commendatario”(1421-1580); -il periodo “priorale”(1580-1780). L’abbazia di Santa Maria della Sambucina fu fondata nel 1139 ed è il più antico insediamento cistercense nel Mezzogiorno d’Italia,emanazione diretta di Clairveaux e non,come vorrebbero altri studiosi,subcolonia dell’abbazia di Casamari.Lo prova un documento che il Marchese presenta come il fiore all’occhiello della sua ricerca sulla Sambucina:l’atto di donazione del monastero ai monaci da parte della famiglia feudale dei Lucji,nel 1140-41.Da esso risulta dunque che il complesso abbaziale era preesistente all’arrivo dei cistercensi,fondato dal conte Goffredo dei Lucji(Guffridus fundator Saboccinae,come si legge nell’atto),e destinato,a quanto sembra,ad accogliere San Bernardo in persona:ma il padre dell’ordine declinò l’invito,perché impegnato nei lavori del concilio di Sens,che proprio in quell’anno condannò in toto l’eresia di Abelardo(che aveva accostato la Trinità divina allo schema plotiniano),e inviò a guidare il nuovo centro monastico i suoi quattro “apostoli” provenienti da Moreruola in Spagna,Sigismondo,Ugone,Eligio e Pietro,protagonisti del periodo,per così dire,”bernardino” della storia dell’abbazia. A Sigismondo,primo abate del monastero,si deve,nel 1148,l’emanazione della costituzione originale della comunità abbaziale.Gli successe Antonio,che iniziò l’allargamento della giurisdizione territoriale del monastero acquisendo il controllo dell’abbazia di S. Maria del Corazzo,nel territorio di Catanzaro,da lui stesso fatta ricostruire nel 1157.Rimonta a Domenico,terzo abate in Sambucina,la fondazione,nel 1168, della prima subcolonia sambucinese,nel territorio di Messina,l’abbazia di S. Maria di Novara,affidata alla direzione di Ugone.La colonizzazione dei bernardini cratensi continua con i successivi abati Simeone e Guglielmo,quando ormai,soltanto nel Bruzio,il monastero è padrone di un’area territoriale che si stende da Acri fino a Corigliano.Sotto il rettorato di Guglielmo,nel 1186,il monastero ebbe a subire danni dal terremoto che sconvolse il Cosentino;la parte che ne uscì in macerie fu ricostruita con la collaborazione dei monaci casamariensi:ed è da questo momento che la Sambucina entra nell’orbita dell’abbazia laziale,fino a diventare una sua dipendenza vera e propria,per disposizione della bolla papale emessa da Celestino III nel 1192. Inizia così il periodo casamariense della storia sambucinese,durante il quale,pur avendo perso la sua autonomia,l’abbazia continuò comunque ad essere un punto di riferimento religioso e culturale della regione,grazie anche alla politica di favore nei confronti delle istituzioni monastiche attuata nel XIII secolo dalla casa regnante sveva,in continuità con quella dei Normanni.Ma è praticamente sotto Luca Campano,sesto abate sambucinese e futuro arcivescovo di Cosenza,che termina l’espansione territoriale del monastero con le subcolonie abbaziali di Acquaformosa(1197),nel Cassanese, e del Sagittario(1202),in Lucania,mentre a partire da lui gli abati si rivolgeranno più che altro all’ampliamento strutturale del complesso:è lo stesso Luca Campano a fondare lo scriptorium;gli farà seguito Nicolaus de Fullone nel 1302 fondando il seminario monastico,approvato da Bonifacio VIII,e nel 1315 Gualtiero Negen allargherà la biblioteca del Convento. Con la monarchia angioina l’atteggiamento di benevolenza nei confronti dei monasteri mutò tendenzialmente,puntando i sovrani francesi a riportare sotto la giurisdizione statale ,le arre territoriali controllate dai monasteri. Nel 1421,in seguito ai contrasti sorti a Casamari in merito alla direzione del monastero,il territorio dell’abbazia fu trasformato in commenda,cioè a dire,in senso ecclesiastico,un beneficio territoriale la cui titolarità resta nelle mani del concessore(la Chiesa,scilicet),e non passa al concessionario;la commenda fu retta prima da personalità di rango ecclesiastico e poi,dal 1552,dai duchi Caracciolo.Il commendatario era affiancato da un amministratore,che gestiva per conto di quegli i beni del monastero:di essi sempre più tesero ad avvantaggiarsi i commendatari stessi,specie quelli della famiglia Caracciolo,a tutto scorno dell’abbazia e dei monaci,della cui disciplina religiosa non c’era cura alcuna.Risale a questa età commendataria la terza della storia sambucinese,la visita di Carlo V al monastero.Nel 1569,il 5 marzo,una frana s abbatté sul monastero,risparmiandone solo l’ala abbaziale superiore e la Chiesa. A seguito di questo disastro,l’anno dopo,l’affidatario della commenda rinunciava al beneficio e restituiva l’abbazia ai cistercensi,che trasferirono i monaci e i beni superstiti alla Matina(già appartenuta ai benedettini,e ricostruita proprio da maestranze sambucinesi nel 1184),per tutto il tempo in cui procedettero i lavori di restauro,provvedendo,nel frattempo,ad unire i territori delle due abbazie.Questo stato di cose durò fino al 1580,quando,rimessa in piedi ormai la Sambucina,alla sua guida l’Ordine designò un Priore.E’ l’inizio dell’ “età priorale”,il crepuscolo della storia della Sambucina. I Priori più importanti furono Cesare Calepino,eletto nel 1624,che raddoppiò il numero dei monaci e riportò la Sambucina al regime della Regola,così da preparare la comunità all’accoglimento degli ordinamenti della nuova Congregazione cistercense di Calabria,approvata da Urbano VIII nel 1632( già a partire dal XV secolo infatti l’ordine si era frammentato in Italia in varie congregazioni regionali,come quella toscana di San Bernardo fondata nel 1547 o quella romana del 1623);e Vittorio Federico,che nel 1658 ottenne la restituzione dei beni ancora custoditi nella Matina.Dal terremoto del 1731 l’abbazia non si riprese mai più completamente;il 18 febbraio del 1780,per regio decreto,l’abbazia venne soppressa e i suoi beni in parte incamerati nel demanio e in parte spartiti tra le chiese di Luzzi e la Curia Vescovile di Bisignano.Gli ultimi beni rimasti furono venduti nel 1803 alla Famiglia Lupinacci,incluse alcune fabbriche del monastero. Alla fina dell’excursus storico sull’abbazia il problema di fondo che domina il saggio di Marchese resta quello delle sue origini:un problema che l’autore dibatte,con un approccio del tutto originale,in base ad una doppia argomentazione,cioè dal punto di vista filologico e da quello della storia dell’arte. A questo punto è bene anticipare in un abbozzo quelli che sono i tratti principali del modo di lavorare di Marchese,che potrebbero essere oggetto di un prossimo scritto:il suo merito principale,che ne fa uno storico degno di attenzione,è la raccolta di documenti di prima mano,effettuata con sopralluoghi diretti(non gli fu difficile accedere agli archivi storici comunali grazie alle responsabilità politiche che ebbe a ricoprire negli anni ’20-’30)o tramite contatti con amici studiosi.Lavoro d’archivio e confronto consultivo sulle fonti sono quindi i pilastri probativi del suo modo di scrivere storia,su cui egli innesta,come terzo elemento,quella che potremmo chiamare la “prova osservativa”,che rispecchia la reale capacità di Marchese “completare” i dati in suo possesso ricollegandoli al contesto storico generale attraverso uno sguardo fondato,anche stavolta,sul confronto,ad esempio,tra aspetti cronologici.Documentazione,confronto, ricontestualizzazione:è chiaro che.laddove manchi un supporto documentale robusto,anche l’acume ricontestualizzante si fa carente,ma nel caso del saggio sulla Sambucina quello che veramente dev’essere apprezzato è la capacità dell’autore di affermare il primato cronologico di essa sulle altre abbazie cistercensi del Meridione partendo dall’atto di donazione ricordato sopra,che il Marchese stesso rinvenne nell’archivio Firrao – Sanseverino. Ecco un bell’esempio del procedimento storiografico del Marchese:l’autore riporta il testo integrale dell’atto e lo pone in relazione all’accordo di Mignano del 1139,indicandolo come suo naturale antefatto.L’accordo,che chiudeva i contrasti tra San Bernardo e Ruggero II di Sicilia,dovuti all’elezione da parte del re normanno dell’antipapa Anacleto II in opposizione al legittimo pontefice Innocenzo II,sostenuto dal santo,apriva nello stesso tempo le terre del Regno all’insediamento di comunità cistercensi. Ora,considerato che,com’è naturale,non potevano esservi,per questa ragione,monasteri cistercensi al Sud prima del 1139(ve ne erano,semmai,molti dei benedettini neri,o benedettini propriamente detti),e dato anche che nel torno di tempo tra il 1139 e il 1141,cioè quello in cui la Sambucina vide la luce,non si ha notizia di altri monasteri meridionali di quell’ordine,l’abbazia cratense dev’essere stata per forza la prima.Il fatto,poi,che fosse stata edificata per accogliervi San Bernardo indica che,nelle intenzioni di Goffredo dei Lucji,essa doveva sancire la riconciliazione tra il re e il santo.E’ questo il risultato saliente dell’indagine di Marchese,il nerbo della sua trattazione.Il tentativo di spiegare il primato di anzianità della Sambucina anche attraverso il confronto con gli stili architettonici delle altre abbazie cistercensi meridionali,cioè attraverso una prova osservativa non suffragata da documenti d’archivio,non aggiunge nulla di nuovo alla tesi già centrata da Marchese,il che dimostra che il nostro si trovava particolarmente a suo agio davanti al dato filologico più che a quello artistico- archeologico.Ma è un limite che gli si può perdonare,dal momento che riesce a compensarlo ricorrendo ancora una volta al dato filologico:la sua idea infatti è che la Sambucina possa aver risentito dell’influsso del monaco – architetto Brunone,lo stesso che eresse la prima abbazia cistercense in Italia,quella di Chiaravalle in Lombardia nel 1135(e poi quella di Santa Maria del Chienti nel 1142).Infatti,prima che,in quel fatidico 1140,fosse consegnato l’atto di donazione ai monaci,San Bernardo inviò in Val di Crati alcuni monaci per effettuare un’ispezione della struttura abbadiale che avrebbe dovuto accoglierli:nella lettera di raccomandazione al re Ruggero in favore di essi il santo nomina espressamente un magistrum(cioè un architetto,incaricato di compiere la perizia edile della badia e di provvedere agli eventuali ritocchi)Brunonem,che il Marchese identifica senz’altro,data la coincidenza delle informazioni cronologiche,col costruttore dell’abbazia presso Milano. L’intelligenza filologica salva il Marchese dalla sua profanità di critico d’arte.
Gianluca Vivacqua, autunno 2003
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Nella visione del mondo degli scrittori tedeschi dell’otto- novecento c’è una problematica di fondo sottintesa alla tematica di ciascuno:il dissidio tra arte e vita.Questo dissidio si supera in base ad un compromesso,o lo si lascia emblematicamente irrisolto.Nella posizione del compromesso troviamo attestati,ciascuno all’interno del fervore spirituale della propria epoca,Thomas Mann e Johann Wolfgang Goethe;nella posizione del rifiuto risolutivo c’è,in modo massimamente rappresentativo,Franz Kafka. 1.Thomas Mann (1875-1955).Nato da una famiglia mercantile di Lubecca,si trasferì a Monaco dopo la morte del padre,iniziandosi all’attività letteraria e giornalistica.Premio Nobel nel ’29,fu esule dal ’33,morendo quindi in Svizzera nei pressi di Zurigo.Il nucleo fondamentale della tematica di Mann è formata da due motivi:il ruolo conflittuale dell’arte nella società borghese,e la decadenza della borghesia nei suoi modelli di perpetuazione familiare,sotto i colpi delle diverse tensioni individuali dettate dallo spirito e dai tempi (il modello – Buddenbrook:l’identità di una famiglia si disgrega,generazione dopo generazione,a causa dei differenti indirizzi morali e valori di vita dei capi famiglia).In questo nucleo si inserisce,dal1900 in poi,l’elemento della malattia che approfondisce,in tono catartico,il solito dissidio arte –vita e arte – epoca e tra presente individuale e presente reale(Morte a Venezia;La montagna incantata).In tale contrapposizione la soluzione di Mann è di tipo goethiano,con un compromesso tra le due parti in nome di una elevatezza del sapere e del sentire. 2.Holderlin (1770-1843).Indirizzato agli studi ecclesiastici,li abbandonò per dedicarsi alla poesia e all’attività di precettore presso varie famiglie di Francoforte,fra ui quella del banchiere Gontard,la cui moglie,Suzette,egli amò fino alla morte di lei.Si stabilì quindi come bibliotecario a Homburg,dove l’aggravarsi della sua instabilità mentale rese necessaria la sua messa in custodia presso il falegname Zimmer,con cui trascorse gli anni restanti della sua vita.Nella sua poesia si fonde una vena classicista – simbolista,che arriva a vagheggiare una nuova religione dell’umanità in un’età dell’oro in cui l’Ellade sarebbe rivissuta in Germania,e una vena malinconica,che canta il ritorno alla natura come rifugio. L’Iperione è il punto di fusione tra queste due pulsioni liriche. 3.Novalis (1772-1801).Allievo di Fichte e Schelling,si impiegò poi a Weissenfels nell’amministrazione delle miniere di sale.Sin dagli Inni alla notte compare la sua filosofia poetica dell’ “idealismo magico”:la capacità dello spirito di dominare la realtà con un atto di volontà in base alla fede del trionfo della poesia sulla realtà. 4.Von Kleist (1777-1811).Incarnò con la sua stessa figura il dissidio tra arte e vita,che si rispecchia anhe in molti suoi personaggi. 5.Goethe (1749 – 1832).A Strasburgo si accostò al gruppo dello Sturm und Drang,di cui divenne il principale esponente.Ciò che caratterizza l’opera del poeta,anziché un nucleo di temi,è un’ispirazione che matura e cambia orizzonti nelle varie fasi della vita,passando dalle posizioni romantiche delle origini a quelle ottimistico – borghesi dell’età matura.Il periodo dei Dolori del giovane Werther è quello del titanismo spirituale di stampo alfieriano;dall’Ifigenia in Tauride in poi (1779)Goethe passa ad un classicismo paganeggiante;a partire dalle Xenie(1796),scritte in collaborazione con lo Schiller,Goethe attua una sorta di compromesso tra aspirazioni artistiche e vita borghese che si realizza nella superiorità contemplativa dell’intellettuale. 6.Franz Kafka (1883-1924).Impiegato alle Assicurazioni Generali,iniziò l’attività letteraria a 30 anni su esortazione dell’amico Max Brod,ma in vita pubblicò solo una serie di racconti,dando poi ordine,nel sanatorio di Kierling,dove morì tubercolotico,che tutti i suoi lavori,specie quelli inediti,fossero distrutti.Ma è dalla contravvenzione di Brod a quest’ordine che la storia della letteratura ha guadagnato i tre romanzi più importanti di Kafka,America,Il Castello,Il Processo,nei quali egli enuclea il tema della vita come labirinto,in mezzo a cui l’uomo può soltanto girovagare all’infinito senza una vera speranza di libertà,e dunque senza una vera meta.
Gianluca Vivacqua, gennaio 2004
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All’origine della musica leggera italiana vi sono i patrimoni canori regionali e le canzonette del teatro d’avanspettacolo.
A queste due forme di canzone leggera si affiancò,dall’inizio del XX secolo e con una particolare intensificazione negli anni del fascismo,la canzonetta radiofonica,basata su un’impostazione vocale che tendeva il capo alla lirica e una tenuta ritmica accattivante e adatta alla diffusione.Delle tradizioni canore regionali la prima ad assumere dignità di scuola melodica,grazie anche alla letterarietà di alcuni suoi testi,fu quella napoletana.Fino alla fine degli anni ’50.,dunque,la scuola napoletana,assieme alla canzonettistica di matrice teatrale e radiofonica,la fece praticamente da padrona sulla scena della musica popolare italiana. Negli anni ’60 si afferma una nuova generazione di cantanti-intellettuali che si propone di cantare il sentimento in modo elegante e malinconico,senza gli edulcoramenti melodici del modello napoletaneggiante ma introducendo per la prima volta l’elemento del travaglio esistenziale:sono artisti,come Tenco,De André,Paoli,tutti provenienti dal territorio di Genova,sicché il loro movimento è denominato generalmente “scuola genovese”,ma,dato il suo peso culturale profondo e duraturo,esso costituisce più realmente un vero e proprio stile d’arte trasversale ad ogni connotazione regionale e cronologica,la cui atmosfera tematica informa l’opera dell’interprete più rappresentativo degli anni ’70,Lucio Battisti,e si prolunga in quella dei suoi epigoni e continuatori. Proprio negli anni ’70 Claudio Baglioni,romano,compie la svolta storica nella scelta del destinatario della musica popolare indirizzando l’immaginario poetico dei suoi brani d’amore più apertamente ad un pubblico adolescenziale e giovanile:da allora la musica leggera tenderà perlopiù a distaccarsi dal pubblico adulto per rivolgersi con specifica preferenza alla massa dei giovani.In questo decennio nasce anche la canzone politica,il cui maestro riconosciuto è Francesco Guccini,figlia del fervore degli anni della contestazione e dei rivolgimenti nella società italiana dovuti agli anni di piombo;dalla canzone politica muove un altro romano,Francesco De Gregori,per approfondire i toni della pittura sociale e storica,mentre Antonello Venditti,anch’egli romano,è una via di mezzo tra il cantante politico e il cantante sentimentalista,mantenendo una sorta di romantica e sognante ironia nei confronti dell’attualità sociale.Con Venditti,De Gregori e Baglioni,pur nella diversità delle loro tematiche,si può parlare di una “prima Scuola Romana”. Negli anni ’80 a Napoli una nuova generazione di cantanti e musicisti cresciuti con le inflessioni della musica blues e folk americana e internazionale la reinterpreta con spirito mediterraneo dando vita alla Nuova Scuola Napoletana:gli esponenti principali sono Eduardo Bennato,Pino Daniele,Tullio De Piscopo e Toni Esposito. Alla fine degli anni Novanta si afferma la cosiddetta “seconda Scuola Romana”:essa si lega alla prima per un’eredità vendittiana di fondo,che matura in una coscienza e quindi in una poesia musicale più tesa al disincanto,alla leggerezza,al gioco,orientata a dissociare l’intralcio buffo della vita dal proprio spirito,ma in realtà ha probabilmente come vero modello lo spirito anarchico – surreale di Rino Gaetano,cantante calabrese fiorito anch’egli negli anni ’70.A questo nuovo movimento appartengono,tra gli altri,Niccolò Fabi,Daniele Silvestri e Max Gazzé.
Gianluca Vivacqua 7 ottobre 2004