Per il cinquecentenario della morte di Leonardo da Vinci ci siamo presi la briga di adattare in un italiano un po’ più moderno la fondamentale Vita di Leonardo di Giorgio Vasari. Riteniamo infatti ingiusto che, mentre i grandi classici dell’antichità possono contare su traduzioni nell’italiano più pulito e moderno, i classici italiani della prosa dal Trecento al Settecento (cioè quelli che sono ancora oggi inaccessibili per la maggior parte dei lettori italiani) debbano rimanere nel loro testo originale, proprio perché considerati capisaldi della lingua. Così facendo, però, vietiamo al grande pubblico una lettura comprensibile di giganti come Guicciardini, Machiavelli e tanti altri: tra essi, naturalmente, c’è anche Vasari, lo Svetonio dell’arte italiana. Un autore irrinunciabile, se soltanto lo si potesse leggere facendo un po’ meno fatica.
Ci preme ovviamente sottolineare che, proprio per ragioni di chiarezza, alcune volte ci è stato necessario modificare l’ordine del testo originale, e in altri casi abbiamo dovuto semplificare dei periodi molto complessi. Ci restano dei dubbi di attribuzione relativamente ad alcuni significati particolari ma ce li teniamo per noi e saranno, anzi, un pungolo per migliorare questo lavoro. Opera nostra è, con tutta evidenza, anche la suddivisione del testo in piccoli capitoli.
PROEMIO
Tante volte le persone ricevono dal cielo doni naturali di grandissimo valore. Talvolta ne hanno anche di soprannaturali, e così abbondanti che sembra quasi che in un corpo solo si fondano bellezza, grazia e virtù. E questo accade in una misura tale che, dovunque l’uomo che abbia ricevuto quei doni volga il suo sguardo, ogni cosa che produce è così divina e sopravanza talmente quelle dei suoi simili che si manifesta chiaramente per quello che è: e cioè, appunto, come un dono divino, che non si può acquisire attraverso l’umana conoscenza.
Questo gli uomini lo videro chiaramente con Leonardo da Vinci, in cui alla bellezza del corpo – mai lodata a sufficienza – si univa una grazia più che infinita in ogni suo atto. E talmente alta, poi, era la sua virtù che, qualunque fosse l’asperità a cui volgeva il suo studio, riusciva a renderla accessibile. Leonardo ebbe molta prestanza fisica, congiunta profondamente con la destrezza, il coraggio e il valore, e un animo nobile e magnanimo. La sua fama, poi, già molto estesa quand’era in vita, si accrebbe ulteriormente dopo la morte.
PICCOLO RITRATTO DI LEONARDO
Straordinario lo fu davvero Leonardo, figlio di ser Piero da Vinci: e probabilmente, se non avesse avuto un animo così volubile e incostante, avrebbe tratto un grande profitto da uno studio regolare. Infatti, egli era solito mettersi a imparare molte cose insieme; in breve tempo, però, stancatosi, molte di quelle che aveva iniziato le abbandonava. (Di certo aveva una grande facilità nell’imparare): in matematica, per esempio, in pochi mesi divenne così bravo da riuscire a mettere in difficoltà l’insegnante con le sue osservazioni. Poi passò per un certo tempo alla musica, finendo assai presto per prediligere la lira come lo strumento più adatto al suo animo leggiadro.
A BOTTEGA DAL VERROCCHIO
Tra tante attività, però, ce ne furono due che non abbandonò mai, e cioè il disegnare e lo scolpire, mostrando che erano le cose che in assoluto gli piacevano di più. Ser Piero se ne accorse: e, valutata la sua bravura, un giorno prese alcuni dei suoi disegni e li portò al maestro Andrea del Verrocchio, che era un suo grande amico. Diede al Verrocchio i disegni del figlio e lo pregò di dare un giudizio sincero sul suo valore: il maestro rimase stupefatto, e gli consigliò caldamente di far continuare il figlio a disegnare. Anzi, se voleva, poteva farlo venire a bottega da lui.
Leonardo ne fu contentissimo. Negli anni dell’apprendistato si esercitò in tutti gli ambiti del disegno figurativo. Si dedicò molto al ritratto al naturale; amava dipingere su tavole ricoperte da strati sottilissimi di lino oltre che su carta. Grazie al suo ingegno multiforme, poi, potendo contare su una conoscenza solidissima delle scienze geometriche, non solo operò nel campo della scultura, realizzando col gesso alcune teste femminili e di putti (oltre che medaglie e terrecotte), ma anche in quello dell’architettura e dell’ingegneria, disegnando numerose piante di edifici. E non si fermò a quello: ancora in giovane età, fu il primo ad occuparsi del problema di canalizzare l’Arno da Pisa a Firenze. Fece anche disegni di mulini e altri macchinari che potessero essere mossi con la forza dell’acqua. Ogni giorno, poi, si immergeva in studi su trafori montani, leve e argani; e in pratica non smetteva un attimo di prendere appunti e scarabocchiare, come si vede dalle sue carte. Addirittura perdeva ore nel disegnare, con tutti i particolari, gruppi di corde. Alcuni dei progetti a cui teneva di più erano anche i più assurdi: per esempio quello di sopra-elevare la chiesa di San Giovanni a Firenze, con un sistema di scalinate ideato da lui che sottopose all’attenzione dei notabili della sua città. Questi, quando Leonardo era presente e parlava, si mostravano convintissimi del progetto, tanta era la capacità di Leonardo di persuadere; poi, però, una volta che era andato via, ripiombavano nel loro scetticismo. In effetti, essere capace di incantare la gente col suo eloquio era un’altra caratteristica di Leonardo.
Si può già capire, comunque, come Leonardo cominciò tante cose e non ne finì praticamente nessuna, prima di tutto perché, in fondo, era un irrimediabile perfezionista. Era convinto, infatti, che, per quanto potesse raggiungere risultati eccellenti, non sarebbe mai riuscito a realizzare il modello di perfezione che aveva in testa. Intanto continuava imperterrito a impegnare le sue energie in mille direzioni, e si occupò anche della proprietà delle erbe e dei moti dei pianeti.
Divenuto, dunque, col beneplacito del padre, discepolo del Verrocchio, accadde un giorno che Leonardo, lavorando su una tavola del maestro che rappresentava il battesimo di Gesù, fece un angelo che reggeva alcune vesti in un modo così eccellente che appariva migliore delle figure del Verrocchio. Visto questo, si dice che il maestro non volle mai più prendere un pennello in mano, talmente ferito dal fatto di esser stato superato da un allievo. Dopo il battesimo fu incaricato di realizzare, per una tenda in oro di Fiandra e seta, di proprietà del re del Portogallo, un cartone di Adamo ed Eva, nel momento drammatico in cui peccano nel paradiso terrestre; con la tecnica del chiaro scuro Leonardo realizzò un’immensa distesa di verde con degli animali. Vi si vede il fico, con le foglie e i rami realizzati con amore e meticolosità somme, ; e poi un palmizio, ugualmente notevole. L’opera non fu portata a termine, però; rimase il cartone, ora di proprietà del Magnifico Ottaviano dei Medici: questi lo ha avuto in dono, non da molto tempo, dallo zio di Leonardo. (A proposito della passione di Leonardo per i dettagli della natura); si dice che un giorno, quando Leonardo era ancora adolescente, ser Piero da Vinci ricevette la visita di un contadino suo dipendente. Questi, da un fico che aveva tagliato, aveva ricavato una rotella e pregava ser Piero di farci dipingere qualcosa, da un artista a Firenze. Ser Piero fu lieto di accogliere la richiesta, essendo quel contadino un affidabile compagno di caccia e di pesca. A Firenze la affidò a Leonardo: questi, non appena la ebbe in mano, per prima cosa la affidò a un tornitore, per affinarne la superficie. Quindi, rivestitala di gesso, cominciò a pensare al soggetto che poteva dipingerci su. Si propose di rappresentare qualcosa di spaventoso, simile a una testa di Medusa. A questo scopo si portò dentro la sua stanza, dopo una lunga ricerca, un gran numero di animali di specie diverse, lucertole, ramarri, grilli, serpenti, farfalle, locuste, nottole e altro. Cucitele insieme, ne cavò fuori un animalaccio dall’aspetto inquietante, che sembrava avvelenare con l’alito e sputare fuoco. E rappresentò questo mostro mentre usciva da una pietra nera e spezzata: sbuffava veleno dalla gola aperta, fuoco dagli occhi e fumo dal naso. In una maniera così sinistra, da apparire assolutamente spaventosa. A ciò si aggiungeva che il puzzo degli animali morti rendeva l’aria di quella stanza pestilenziale: ma Leonardo sembrava non curarsene affatto, trascinato com’era dall’entusiasmo per l’opera. Quand’ebbe finito, in realtà, sia ser Piero che il contadino si erano ormai scordati della commessa. Ad ogni modo, Leonardo avvertì il padre che aveva fatto quello che doveva fare. Ma volle vedere l’effetto che gli faceva: così, chiamato il padre nella sua stanza, si nascose e gli fece trovare il dipinto illuminato solo dalla luce fioca di un lume; nel trovarsi faccia a faccia con quel mostro, ser Piero sulle prime ebbe un colpo, non capendo che si trattava solo di un quadro. A quel punto venne fuori Leonardo, che gli disse: “Prendete quest’opera e portatela a chi la dovete portare, perché questo è il suo fine”. Passato lo spavento, ser Piero cominciò a riflettere sul valore dell’opera. E pensò bene di non darla al contadino, a cui piuttosto preferì comprare un’altra rotella già pronta, col dipinto di un cuore trapassato. La rotella del figlio, invece, la vendette segretamente a certi mercanti di Firenze, per cento ducati. E da essi passò presto nelle mani del duca di Milano, che la pagò 300 ducati.
L’AMORE PER I PARTICOLARI
In seguito Leonardo realizzò una Madonna per Clemente VII. Essa si distingue, fra le altre cose, per una caraffa piena d’acqua con dentro dei fiori, resi mirabili da gocce di rugiada. Per il suo grande amico Antonio Segni realizzò su carta un Nettuno che pareva vivo. Lo si vedeva in mezzo ad un mare mosso sul suo carro trainato dai cavalli marini con le sirene, le orche e altre divinità marine. Quest’opera fu poi donata da Fabio figlio di Antonio a messer Giovanni Gaddi, corredato con questo epigramma:
Dipinse Virgilio Nettuno, Omer lo dipinse
mentre guadando il mar risonante di onde soggioga i cavalli.
Ma con la mente entrambi i poeti lo vider,
mentre il vincian lo fece con gli occhi, e ben a ragione gli altri superò.
Gli venne poi il capriccio di dipingere in un quadro ad olio la testa di una Medusa, la cui acconciatura era costituita da un aggrovigliamento di serpi: un’idea nuova e stravagante, che però rimase non compiuta. Questa è fra le cose più notevoli che si vedono nel palazzo del duca Cosimo, insieme ad una testa di angelo con un braccio in aria e il gomito proteso in avanti, mentre l’altro con una mano tocca il petto. È cosa davvero notevole ad osservarsi come un ingegno come il suo, proteso a dare il maggior rilievo possibile alle cose che dipingeva, fosse realmente esasperato dalla ricerca degli scuri: quelli che creassero ombre e fossero più scuri degli altri neri per far emergere, nel contrasto, i chiari. Alla fine, pero, il risultato era sempre quello di una notte diffusa, dove non si poteva mai percepire il chiarore di un dì; tutto, però, era finalizzato alla perfezione delle forme.
Gli piaceva così tanto notare tra la gente facce bizzarre, con barbe o capelli da uomini selvatici,che, se avesse visto uno che gli piaceva, avrebbe potuto seguirlo per un’intera giornata. Riusciva poi a memorizzarlo così bene, che a casa poteva disegnarlo alla perfezione. Di questi profili, maschili e femminili, se ne vedono tanti, ed io stesso ne ho ricalcati parecchi, con la penna, in quel libro dei disegni già citato: tra essi ci sono quello, bellissimo, di Amerigo Vespucci, che è una testa di vecchio realizzato in carbone; o quello di Scaramuccia, capitano dei Zingani, che poi Giambullari passò al canonico di San Lorenzo, messer Domato Valdanbrini d’Arezzo. Cominciò anche una tavola dell’adorazione dei Magi, ammirevole per gli splendidi volti. Essa era in casa di Amerigo Benci, davanti alla loggia dei Peruzzi; ma rimase incompleta, come tante altre sue opere.
L’AMORE DI LEONARDO PER GLI ANIMALI: IL SUO LATO “FRANCESCANO”
Pur non avendo mai veramente navigato nell’oro, Leonardo non si privò mai né di attendenti e collaboratori né di cavalli, gli animali che amava più di tutti, e a cui dedicava un amore e una pazienza infiniti. Non sopportava di vedere gli uccelli in gabbia: tante volte, passando dai luoghi dove venivano venduti, li liberò di sua mano dopo aver pagato i mercanti. La natura in un certo senso lo ricompensò per questo amore nei suoi confronti con doti fuori dal comune.
LEONARDO A MILANO
Morto Giovan Galeazzo duca di Milano, nel 1494 gli successe in quella stessa carica Ludovico Sforza. Leonardo, allora, preceduto dalla sua fama, fu introdotto alla sua corte. Al duca piaceva sentire il suono della lira. E Leonardo, grazie ad una lira fabbricata di sua mano, che aveva la forma di un teschio di cavallo e riusciva a produrre sonorità inconsuete, batté a mani basse gli altri musici di corte. Inoltre egli si impose come il miglior improvvisatore al servizio del duca, che letteralmente si innamorò delle sue prodezze verbali. Non gli fece mancare neppure commissioni artistiche: lo pregò di realizzare una pala d’altare, rappresentante una Natività che fu poi inviata all’imperatore. Sempre a Milano, ma per i frati di San Domenico in Santa Maria delle Grazie, fece un cenacolo che è opera bellissima e meravigliosa. Ai volti degli apostoli conferì grande maestà e bellezza, mentre lasciò quello del Cristo incompleto, ritenendo di non potergli dare quella divinità celeste che si richiedeva alla sua immagine. L’opera divenne presto per i milanesi oggetto di vera e propria venerazione, oltre che per i forestieri: e questo per la capacità di Leonardo di aver saputo trasporre nella pittura il dramma degli apostolo che si chiedevano chi avesse tradito il maestro. Dal viso di tutti traspaiono i sentimenti del momento, l’amore, la paura, lo sdegno e soprattutto il dolore di non poter intendere l’animo di Cristo. Contrasta con l’animo degli altri, naturalmente, quello di Giuda, votato all’odio e al tradimento. Ma l’opera si fa ammirare anche per la raffinatezza tecnica dei particolari, come la tovaglia che copre il tavolo della cena.
Si dice che il priore sollecitasse molto insistentemente Leonardo perché finisse al più presto l’opera. Gli dava fastidio in modo particolare il fatto che Leonardo molte volte stava tutta la giornata a contemplare rimanendo operoso, quando avrebbe voluto da lui che non abbandonasse neppure per un minuto il pennello, come facevano i contadini con la zappa nell’orto vicino. Ma non gli bastò questo: si lamentò col duca del comportamento dell’artista, e il duca fu costretto a notificargli un sollecito, mostrando, però, che non era opera sua, ma che assecondava gli umori del priore. Leonardo, sapendo che il duca era un uomo intelligente, fece con lui una discussione pacata (cosa che non era mai riuscito a fare col priore). E, discorrendo, gli fece capire che gli ingegni elevati, anche quando sembra che non lavorino, in realtà stanno operando in misura anche doppia, perché stanno cercando quelle soluzioni creative che poi dovranno finalizzare nella realizzazione. Aggiunse anche che gli mancavano ancora due volti da fare: uno di questi era proprio quello di Cristo, il cui modello non voleva cercare in terra, e per il quale, per quanto potesse pensare, non riusciva a concepire nulla all’altezza di quella bellezza e grazia celeste sintetizzate nella divinità incarnata. Gli mancava pure quella di Giuda, poiché neppure in questo caso riusciva a trovare un modello atto a rappresentare un uomo di animo così crudele da tradire il suo Signore dopo i tanti benefici ricevuti; se poi proprio fosse stato costretto a trovarne uno, probabilmente avrebbe optato proprio per il priore, così petulante e indiscreto, Al che il duca rise di cuore, , e disse che aveva ragione a dir così. Dunque il povero priore per il prosieguo continuò a sollecitare i lavori nell’orto ma lasciò stare Leonardo. Il quale alla fine completò la testa di Giuda, vero ritratto del tradimento. Quella di Cristo rimase, invece, incompiuta.
L’elevatezza di quel dipinto, per la tecnica e per la fattura, fece venir voglia al re di Francia di portarla con sé nel regno; questi cercò in ogni modo di procurarsi degli architetti che, con travi di legno o di ferro, potessero renderla trasportabile in tutta sicurezza, senza badare a spese: tanto era il suo desiderio di avere l’opera. Fatto sta che il dipinto era fatto sul muro, e dunque il re dovette desistere dal suo proposito, e farsi bastare il desiderio. Nel medesimo refettorio di Santa Maria delle Grazie, proprio mentre lavorava al Cenacolo, in cima ad una Passione eseguita secondo i canoni classici Leonardo ritrasse il conte Ludovico, con Massimiliano suo primogenito, e dall’altra parte la duchessa Beatrice, con l’altro figlio Francesco: ambedue i ragazzi sarebbero diventati duchi di Milano. Mentre era impegnato in quest’opera, propose al duca la realizzazione di un cavallo di bronzo di meravigliosa grandezza, a memoria perenne del duca stesso. Ma, per quanto si buttasse nell’opera con passione ed entusiasmo travolgenti, pure non riuscì a portarlo a termine. Molti pensano, non senza malizia, valutando il resto dell’opera dell’artista, che Leonardo abbia iniziato l’opera per non portarla a termine, essendo oltretutto sopraggiunte difficoltà incredibile nella fusione di un unico pezzo grande. Di certo ancora una volta la mania di perfezione di Leonardo, quella sua pretesa di trovare un’eccellenza forse impossibile e, come dice il Petrarca, quella condizione per cui l’opera è ritardata dal desiderio, gli impedì di condurre in porto l’opera; ma è altrettanto vero che chi vide il modello fatto a grandezza naturale da Leonardo non potano ammirarlo sommamente, finché rimase in piedi, cioè fino al rovinoso ingresso dei Francesi in Milano, che lo distrussero senza troppi complimenti. Non ne è rimasto neppure un modello piccolo, in cera, che stava insieme a un libro di anatomia dei cavalli composto da Leonardo proprio per quell’opera. In seguito, con maggior cura, si occupò di anatomia umana, potendo contare sulla collaborazione di messer Marco Antonio della Torre, eccellente filosofo, che allora insegnava a Pavia ed era un cultore di quella materia. Fu il primo, inoltre, come ho sentito dire, che applicò alla medicina la dottrina di Galeno, e soprattutto all’anatomia diede un contributo tale da toglierla da quel cono d’ombra dove si trovava fino a quel momento. Proprio in questo campo utilissimi gli furono la mano e l’ingegno di Leonardo, che addirittura sulla materia realizzò un libro di disegni con la matita rossa ricalcati a penna. I soggetti erano naturalmente cadaveri, che spesso l’artista vivisezionava di persona per poi disegnarne tutte le ossature, e i nervi e i vari livelli muscoli. I disegni erano corredati da appunti vergati al rovescio, cioè con la classica scrittura sinistrorsa di Leonardo, leggibile solo allo specchio.
Di queste carte anatomiche la maggior parte si trova oggi nelle mani di messer Francesco Melzi, gentiluomo milanese, che quando Leonardo era vivo era un bellissimo fanciullo ed era molto amato da lui. Oggi è un vecchio gentile ed elegante, e continua a tenere quelle carte come le cose più care, poiché gli consentono di tenere viva la memoria di Leonardo. Chi legge quegli scritti, letteralmente si stupisce di quanto scrupolo scientifico Leonardo abbia dedicato allo studio dei muscoli, dei nervi e delle vene. Nelle mani di un pittore milanese sono invece altri scritti di Leonardo, scritti sempre con scrittura speculare, che trattano del disegno e del colore. Costui qualche tempo fa è venuto a Firenze a dirmi che aveva intenzione di far pubblicare quell’opera, ma onestamente non so che esito abbiano avuto i suoi propositi.
Per tornare alle opere di Leonardo, quando ancora si trovava lì venne un giorno a trovarlo il re di Francia, a chiedergli di realizzare per lui qualcuno dei suoi macchinari bizzarri. Leonardo si inventò un leone meccanico che, dopo aver fatto un certo numero di passi, aprì il petto e mostrò di contenere tanti meravigliosi gigli. Leonardo prese a Milano come suo discepolo Salaì, un giovane di splendido aspetto, con bei capelli ricci e inanellati; Leonardo lo ebbe molto in simpatia e gli insegnò molti segreti dell’arte. Alcuni quadri, che vengono attribuiti a Salaì, furono poi ritoccati dal maestro in persona.
RITORNO A FIRENZE
Leonardo ritornò poi a Firenze, dove venne a sapere che i frati dei Servi avevano commissionato a Filippino le opere della tavola dell’altare maggiore del’’Annunziata. Leonardo disse che gli sarebbe piaciuto lavorare ad un progetto simile. Udito ciò, Filippino, da persona cortesissima, qual era, si fece da parte e cedette il passo a Leonardo; i frati gli offrirono vitto e alloggio, perché potesse lavorare senza preoccupazioni. Le cose,però, andarono per le lunghe, senza che si vedessero risultati concreti. Alla fine venne fuori un cartone con una Madonna, una Sant’Anna e un Cristo: un’opera così meravigliosa, che i fiorentini da subito fecero la processione per andarla a vedere. E la cosa durò molti giorni. Il perché di questo successo sta nella semplice bellezza con cui è rappresentata la Madonna, in modo veramente degno di una madre di Cristo, e nella dolcezza della scena: vi si vede, infatti, la Vergine tenere in mano teneramente il bambino, e nel frattempo butta un occhio al piccolo san Giovanni, che si trastulla con una pecorella. Nel mentre sant’Anna, colma di letizia, con un gaio sorriso si compiace del fatto che la sua progenie è diventata divina. Questo cartone andò poi in Francia.
In seguito Leonardo ritrasse Ginevra, la moglie di Amerigo Benci, mentre abbandonò il lavoro per i frati. I quali richiamarono Filippino, che però morì di lì a poco e dovette lasciare il lavoro a metà. Intanto Leonardo cominciò a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa, sua moglie, ma dopo quattro anni di lavoro lo lasciò incompleto: oggi si trova presso il re Francesco di Francia a Fontainebleau. Nel volto della donna egli aveva intenzione di mostrare quanto l’arte potesse imitare la natura, con tutti quei particolari del viso che si possono dipingere con grande sottigliezza. L’occhio umido, i peli, le ciglia, dove più folte e dove più rade, il naso, la bocca, dove il colore sembrava essere diventato esso stesso carne. E se si guarda intensamente la vena carotidea, poi, si può vedere il battito del polso. Mentre eseguiva il ritratto, Leonardo era solito farsi accompagnare da un cantore o da un musico o da un buffone , che tenessero su la sua monella, ed impedissero che cadesse in quella malinconia che spesso la pittura conferisce ai ritratti. E in questo ritratto Leonardo fece un ghigno che era cosa più divina che umana a vedersi. Tanto sembrava vivo.
Per l’eccellenza delle sue opere, la fama di Leonardo cresceva sempre di più. Non c’era persona che non gli chiedesse di lasciargli qualche testimonianza della sua arte, anzi era la città intera a chiederglielo. L’occasione per i notabili di chiedere qualcosa a Leonardo fu la riapertura della gran sala del consiglio, la cui nuova architettura si doveva a Giuliano da San Gallo, a Simone Pollaioli detto il Cronaca, a Michelangelo Buonarroti e a Baccio d’Agnolo. Fu Pier Soderini, gonfaloniere, ad incaricare Leonardo di affrescare la sala. Leonardo intraprese quest’opera e fece un cartone nella sala del papa, in Santa Maria Novella, dove rappresentò un momento della vita di Niccolò Piccinino, capitano del duca Filippo di Milano. Nel cartone disegnò un combattimento di cavalli: l’oggetto della disputa era una bandiera. Davvero non si può dire, guardando il disegno, se la furia guerriera sia superiore negli uomini o nei cavalli. Due di essi lottano tra loro con i denti; ma si vede anche un soldato mettere in fuga un cavallo, mentre tenta la bandiera a quattro uomini, dei quali due la tengono, e un terzo con la spada cerca di tagliare l’asta. C’è poi un soldato più vecchio, con un berrettone rosso, che grida e si prepara ad assestare un colpo per tagliare le mani ai due con la bandiera, e così si nota che questi ultimi digrignano i denti. Ci sono poi due soldati a terra: uno ha un pugnale in mano ed è pronto a conficcarlo nell’altro, che, disperato, fa quel che può per evitare la morte. Che dire, poi, del disegno delle armature, dei cimieri, dei finimenti dei cavalli? Si dice che per questo dipinto Leonardo fece realizzare un’ingegnosa impalcatura che, stringendola, si alzava, e allargandola, si abbassava. Tale macchinario doveva aiutarlo nel suo proposito: colorare ad olio il muro. Per la stessa ragione preparò una mistura che risultò però troppo pesante, sicché essa cominciò a colare quando ancora Leonardo non aveva finito di dipingere. Scoraggiato dal fatto che il suo lavoro, proprio per questo, si era irrimediabilmente guastato, Leonardo lo abbandonò. Ancora una volta l’impeto entusiasta e generosissimo di Leonardo non aveva avuto il conforto della buona sorte. Ma di certo la nobiltà del suo animo non naufragò: una volta, quando andò al banco per ritirare una delle provvigioni pattuite, rifiutò un cartoccio di quattrini portogli dal cassiere dicendo: “Non sono pittore da quattrini”. Un’altra volta venne incolpato di voler frodare il gonfaloniere. Leonardo, allora, fece di tutto per restituire la somma chiacchierata a Pier Soderini, che però non volle accettarla.
IL SOGGIORNO A ROMA
Andò a Roma col duca Giuliano de’ Medici, al tempo dell’elezione di papa Leone X. In quel tempo era molto impegnato in studi filosofici e di alchimia: testimonianza di essi sono alcuni animaletti cavi, in pasta di cera, soffiando nei quali, era possibile vederli volare, ma dopo qualche minuto cadevano nuovamente a terra. Visto un ramarro particolarissimo da un vignaiolo di Belvedere, vi aggiunse sopra scaglie di altri ramarri scorticati, e delle ali dipinte con una mistura d’argento. Gli fece inoltre occhi, corna e barba, poi lo addomesticò e se lo tenne in una scatola. E si divertiva, di quando in quando, a spaventare gli amici tirandolo fuori. Altro suo divertimento era quello di far alleggerire e purgare le budella di un castrato, in modo da renderle così sottili che si potevano tenere facilmente in un palmo di mano. Inoltre, in una stanza attrezzata con dei mantici, gli piaceva farle espandere così tanto che chi si recava a visitarlo doveva stare in un angolino di quell’ambiente; e gli piaceva paragonare quelle budella purificate che si espandevano all’animo che si fa grande quando è alleggerito dalla virtù. Si dedicò a molte altre bizzarrie di queste genere: ma attese anche allo studio degli specchi, e continuò ad escogitare soluzioni innovative per la colorazione. In questo periodo realizzò, per messer Baldassarri Turini da Pescia, che era il cardinale addetto alla datazione dei documenti del papa, un quadretto con una Madonna e il bambino in braccio, di squisita fattura. Oggi è molto deteriorato, non si sa se per colpa di chi preparò il fondo o per una delle tante sperimentazioni cromatiche del maestro. In un altro quadretto fece un delizioso ritratto di fanciullo: oggi tutte e due le opere si trovano a Pescia nella disponibilità di messer Giulio Turini. Si dice che, essendogli stata commissionata un’opera per il papa, Leonardo si mise subito a pensare alle tinte; ragion per cui papa Leone osservò: “Ohimè, costui non concluderà nulla, se comincia a pensare alla fine dell’opera anziché al suo principio!”.
Fra Michelangelo e Leonardo c’era un’incompatibilità incolmabile. Così, quando Michelangelo venne a Roma, chiamato dal papa per la facciata di San Lorenzo, Leonardo non ci pensò due volte e accettò l’offerta del re di Francia di valicare le Alpi e di vivere presso di lui, come suo protetto. Il re aveva una grande venerazione per lui e gli chiese, come un favore personale, di colorare il cartone di Sant’Anna. Ma, anche in questo caso, Leonardo non andò oltre le dichiarazioni espresse a parole.
MORTE DI LEONARDO
Divenuto vecchio, si ammalò e soffrì per molti mesi. Vedendosi vicino alla morte, con convinzione si volse dopo tempo immemore alle cose della religione. Con animo profondamente pentito, sebbene non potesse reggersi in piedi, e abbisognando dell’aiuto dei suoi collaboratori, con devozione volle prendere il santissimo sacramento, fuori dal letto. Sopraggiunse il re che spesso e amorevolmente era solito andarlo a trovare; e Leonardo, rizzatosi a sedere sul letto per riverenza, gli raccontò i suoi mali e di quanto fosse addolorato per essersi allontanato dalla religione; oltre che per il fatto, di non essere riuscito a portare a termine la sua opera, come voleva. Proprio in quel momento ebbe l’attacco che fu imminente preludio della morte. Allora il re, rizzatosi, gli prese la testa per far sì che il male si alleggerisse. Ma tutto era compiuto: lo spirito divino di Leonardo, sentendo di non poter aspirare a niente di più alto che librarsi tra le braccia di un re, abbandonò il corpo dell’artista all’età di 75 anni. La scomparsa di Leonardo addolorò oltre misura tutti quelli che lo conoscevano, giacché pochi come lui avevano fatto onore all’arte della pittura. Splendido d’animo, rasserenava tutti i cuori tristi, e con le sue parole convinceva le persone a prendere le decisioni definitive. Forte di tempra, riusciva a controllarsi; ma lo era anche di braccia, e con la destra riusciva a torcere sia il batacchio di una campanella che un ferro di cavallo, come se fosse piombo. Con la sua liberalità accoglieva e sosteneva ogni amico povero e ricco, purché avesse ingegno e virtù.
Qualunque fosse l’ambiente da cui passava Leonardo, non lo lasciava spoglio né disadorno. Sicché davvero si può credere che Firenze ebbe un dono grandissimo con la nascita di Leonardo, e una perdita pure grandissima con la sua morte. Nell’arte della pittura, si deve a lui una certa maniera di colorare ad olio con predilezione per le tinte scure; una lezione che non è rimasta lettera morta, nella pittura successiva. Anche nella statuaria diede prova di sé: c’è tanto di Leonardo nelle tre figure in bronzo che sormontano la porta di San Giovanni sul lato nord: esse furono realizzate materialmente da Giovan Francesco Rustici, ma progettate da Leonardo, e sono un esempio di perfezione nel disegno. Leonardo ci ha lasciato anche la più perfetta anatomia dei cavalli e degli uomini; Per tutte queste cose, benché amasse soffermarsi sulla descrizione dei progetti più spesso di quanto riuscisse a realizzarli, la sua fama è imperitura. E bene ha meritato i versi in lode di messer Giovanbattista Strozzi che recitano così:
Vince costui pur solo
tutti altri; e vince Fidia, e vince Apelle;
e tutto il lor vittorioso stuolo.
I DISCEPOLI DI LEONARDO
Fu discepolo di Leonardo Giovanantonio Boltraffio, milanese, artista di grande intelligenza, che nell’anno 1500 dipinse su una tavola a olio, nella chiesa della Misericordia fuori Bologna, una Madonna col Bambino in braccio, insieme a San Giovanni Battista e a San Sebastiano nudo. Ritrasse anche il committente, nudo e in ginocchio. Sopra la tavola scrisse il nome e specificò di essere discepolo di Leonardo. Boltraffio operò anche Milano e altrove; sul conto è sufficiente, tuttavia, aver nominato quella che è certamente la sua opera migliore. Altro discepolo di Leonardo fu Marco Uggioni, che nella chiesa di Santa Maria della Pace dipinse la morte della Madonna e le nozze di Cana in Galilea.
Una replica a “Giorgio Vasari – Vita di Leonardo”
Ottima traduzione in italiano moderno.Sinceri Complimenti. Ad maiora
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