Stephen J. Cannell, creatore della serie tv di culto che ha lanciato nell’immaginario catodico Mr. T e ha dato a George Peppard l’ultima importante occasione della sua carriera, mette la firma anche nel progetto di questo film che ne è tratto. Ritmo e adrenalina sono decuplicati nelle scorribande bellico-muscolari del quartetto (tra gli episodi della serie originale e il lungometraggio ci sono circa venti anni di action-cinema fortemente segnato dalle lezioni dei vari Mission Impossible ed epigoni: obbligatorio nello schema dello sviluppo della vicenda l’incrocio con i sevizi segreti), ma lo spirito goliardico-cameratesco è in sostanza pressoché immutato, benché sia messo al servizio di caratteri costretti anch’essi ad allinearsi col mutare dei tempi. Hannibal Smith non è più il gentiluomo irriverente col piglio autorevole del sopravvivente nato e un sadico gusto per il pericolo messo in scena da Peppard, ma è il capitano coraggioso con la malinconica generosità nel gettare il cuore oltre l’ostacolo di Liam Neeson. Sberla (Bradley Cooper) è sì un rubacuori fuoriclasse al pari dell’originale, ma la sua eleganza ha un che di più turbolento e di irrequieto, ed è formalmente lontana da quella classica e posata, quasi alla Clark Gable, di Dirk Benedict; P.E. Baracus (Quinton Jacson), poi, attraversa addirittura una crisi spirituale, da cui poi naturalmente uscirà grazie alle parole motivanti di Hannibal,mentre Murdoc (Sharlto Copley) dei componenti del gruppo è forse quello che rimane più fedele al modello, mantenendosi in bilico tra esaltazione visionaria e levità demente, così antesignana del Jim Carrey di Scemo & + Scemo. La fascinosa Jessica Biel non fa rimpiangere il ricordo di Melinda Culea (ma in tutt’altro ruolo).
La parte iniziale del film, che ha come scenari prima il Messico e poi l’Iraq, è una sorta di prequel, che ricostruisce la formazione del team e le circostanze per le quali un corpo speciale di uomini, formatisi militarmente durante la Prima Guerra del Golfo e operante in Iraq per azioni estreme (in Vietnam nel telefilm), sia stato ingiustamente processato e condannato da un tribunale militare. Rinchiusi separatamente in carceri di massima sicurezza ed evasi quasi in simultanea, i quattro si dedicheranno quindi alla missione di riabilitare il loro nome, ma alla fine capiranno che, più importante della riabilitazione (cosa che comunque non riusciranno ad ottenere, essendo degli evasi) è l’aver scoperto una nuova, prepotente vocazione di cavalieri fuorilegge senza macchia e senza paura. Qui finisce l’antefatto del mito: esso ora continua nella memoria televisiva.
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Per Mel Gibson una nuova variazione sul tema del vendicatore in nome dei propri affetti e di un superiore senso della giustizia: dopo il guerriero padre della patria di Braveheart, l’eroe di guerra di The Patriot e il delinquente-Lazzaro di Payback – La rivincita di Porter, senza dimenticare il Cristo di The Passion, che praticamente è un personaggio alla Gibson a tutti gli effetti, tranne che per il volto, adesso è il turno di Tom Craven, detective privato di Boston, chiamato a rendere giustizia alla figlia, Emma (Bojana Novakovic), che un sicario gli uccide proprio davanti alla porta di casa. Questo per troncare sul nascere l’eventualità che una testimonianza della ragazza possa dare l’avvio ad un’inchiesta sull’azienda per cui ella lavorava da stagista, la Hartmoor: diretta dal luciferino Bennett (Danny Houston), l’azienda è ufficialmente impegnata nel settore delle energie alternative, ma autorizzata in segreto a sviluppare un programma di produzione di armi nucleari. E per i dipendenti che si spingono a curiosare in modo troppo ardito, o che favoriscono la penetrazione di estranei (magari ambientalisti di McFlower) nella “zona proibita”, c’è il “trattamento” radioattivo. Dunque Emma sarebbe morta comunque in ospedale, dove si stava recando quando la pallottola dell’emissario di Bennett la raggiunge.
Strutturalmente il film sembra un noir in forma di thriller poliziesco: in effetti si definisce propriamente “noir” l’intrigo giallo in cui o la vittoria dei buoni resta sullo sfondo delle gesta dei cattivi, oppure la vicenda si conclude pendendo in modo irrisolto tra il bene e il male. In effetti in Fuori controllo la sconfitta dell’azione di Bennett appare compensata dal “gioco sporco” dell’agente Jedburgh (Ray Winston), un “infido” di classica impostazione, personaggio nel cui animo un inesorabile senso di giustizia si confonde dietro una coltre di impenetrabile doppiezza. Con tutto questo, però, il regista Martin Campbell sa mettersi al servizio dello spirito manicheo dei grandi classici di Gibson, in un certo senso adattandolo ai ritmi televisivi del suo omonimo successo del 1985 (Edge of Darkness è il titolo originale del film, ed era anche quello della miniserie diretta da Campbell venticinque anni fa, con Bob Peck e Hugh Fraser protagonisti). A uno spettatore sensibile non sfugge infatti che la caratterizzazione di Tom Craven è degna dei migliori poliziotti del piccolo schermo, a parte l’inconfondibile temperamento gibsoniano da castigatore in cerca di riconciliazione interiore: peccato però che il “detective del gingerino” non sarà il Kojak del futuro, perché è già una derivazione di un eroe catodico (il primo Craven però si chiamava Ronald). -
Integrazione è la parola d’ordine del governo di Nelson Mandela (Morgan Freeman). Integrazione tra bianchi e neri, tra ancient e nouvel regime; integrazione anche nello sport, dove diventa fondamentale trasformare la nazionale simbolo della disciplina più amata dagli Afrikaneer, il rugby, nella squadra bandiera della nazione. Nella palla ovale Mandela capisce subito di poter trovare il collante di cui ha bisogno per edificare il Sudafrica che ha in mente, anche a costo di doversi disinteressare di questioni politiche più urgenti; e nella Coppa del Mondo di rugby del 1995, ospitata proprio nella terra dei Bafana Bafana, il percorso per costruire l’identità post-segregazionista del Paese. Così il film, lungi dall’essere la biografia del leader della lotta contro l’apartheid (le vidende personali del protagonista sono in realtà poco più che un antefatto nell’economia di esso), diventa la narrazione, non meno agiografica, di questo percorso, attraverso le fatiche fisiche, lo stress psico-motivazionale e la determinazione, che si fa via via una sempre più chiara consapevolezza di giocare e vincere per formare la coscienza di una patria, dei baldi alfieri in verdeoro, gli Springboks, capitanati da François Pienaar (Matt Damon). Per arrivare,
naturalmente, al trionfo del cuore, proprio contro gli antichi padroni segregazionisti. Trionfo sorretto dall’ispirazione, altra parola d’ordine del pensiero mandeliano: definibile come la capacità interiore di trarre forza vincente dalle parole di una poesia o di una canzone, meglio ancora se un inno, considerato per eccellenza il testo musicale fondativo di un’identità nazionale. Nel caso di Pienaar l’ispirazione giunge, e poi grazie a lui si trasmette ai suoi compagni, da quegli stessi versi che sostennero Mandela nei trent’anni di prigionia; versi da lui non letti, ma “rivelatigli” proprio dalla voce di “Madiba”, che gli appare, come in una visione-oracolo, nella sua vecchia cella a Robben Island, meta di un “pellegrinaggio” turistico della squadra.Fin qui la faccia storico-politico-ideale: ma Invictus si fa apprezzare anche dal punto di vista strettamente agonistico. Il nuovo film di Clint Eastwood si può infatti tranquillamente includere nel filone cinematografico americano dedicato alla palla ovale, accanto a titoli come Quella sporca ultima meta od Ogni maledetta domenica; anche se nell’alta visione morale che Mandela ha della sfida sportiva – e non solo sportiva: in essa infatti entra in gioco anche la scommessa politica sul futuro suo e della sua leadership carismatica – c’è probabilmente più continuità di spirito con un’altra pagina epico-spettacolare di sport sul grande schermo, la partita di calcio in Fuga per la vittoria.
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Il Denzel Wahington che percorre una regione da West post-atomico ricorda vagamente Jena Plissken in 1997: fuga da New York, ma con una velocità nello sbaragliare gli avversari e un’invulnerabilità più simili ad un Keanu Reaves-Neo. Come Neo, in effetti, anche Eli è un eletto, che ha il compito di redimere l’umanità precipitata in una nuova barbarie da un apocalittico conflitto nucleare tornando a far circolare la parola del Libro dei Libri, la Bibbia: uno dei pochi libri (l’unico, a detta dello stesso Eli) salvatisi dall’olocausto culturale seguito alla catastrofica guerra.
Infatti, dopo che quel conflitto, trent’anni prima dell’inizio di questa storia, aveva avuto come conseguenza il collasso del Sole, con l’annientamento della maggior parte della popolazione terrestre, il pianeta si era impoverita. Le sorgenti di acqua valevano come i pozzi di petrolio del vecchio mondo, e c’era rimasto poco da mangiare, a meno che non si fosse provetti cacciatori neandertaliani, tant’è che molti dei sopravvissuti avevano resistito prima alle privazioni della guerra e poi alla sciagura climatica convertendosi all’antropofagia, e continuavano ancora a praticarla. E’ dunque più che naturale pensare che, in un mondo popolato da bande di predoni interessati alle carni dei viandanti e da civili inermi, imbelli, che popolavano città buie e diroccate, dove il baratto era tornato in uso come strumento di transazione, non ci fosse più interesse per la cultura sviluppata nella storia pre-bellica dei loro antenati, sicché ormai delle nuove generazioni, nate dopo la ripresa della vita, nessuno sapeva più leggere. Eppure Eli, che rappresenta il trait d’union tra vecchio e nuovo mondo (è nato prima del conflitto, a cui ha partecipato, ed è sopravvissuto ad esso) sa nel suo cuore, e per divina ispirazione, che all’ovest c’è la terra dove l’Oceano esiste ancora, dove resiste un lembo di umanità che ha il culto della lettura e della dignità della conoscenza umana, ed è lì che il suo prezioso libro troverà custodia e rifugio. Suo malgrado si trasforma in giustiziere lungo la strada, un po’ per salvare la sua stessa pelle, un po’ perché non ci sta a rimanere impassibile di fronte ai soprusi commessi ai danni di poveri derelitti, e di cui è spettatore: ma il suo proponimento di partenza, in realtà, sarebbe quello di restare sul suo cammino, senza soffermarsi sulle situazioni in cui potrebbe imbattersi. Naturalmente vede giusto: quella terra dell’ovest e quel residuo lembo di umanità sono reali. Ma non aveva tenuto conto di due cose. La sua Bibbia non è l’unico libro superstite; ce ne sono altri -tutte edizioni vecchie e malandate, si intende, che però sono oggetti di lusso in un tempo in cui anche i negozi più costosi espongono reperti archeologici, e perfino il lettore mp3 arrugginito del nostro avrebbe mercato- e lui non è l’unico rimasto sulla Terra ad apprezzare il “potere” della lettura. C’ è infatti un altro uomo che viene dal suo tempo, Carnegie (Gary Oldman), che non ha certo dimenticato come l’istruzione sia un potentissimo strumento di comando su masse analfabete. Sono anzi proprio la sua capacità di saper leggere e scrivere, e la sua collezione di libri, ad elevarlo presto sulla media, e a farlo diventare il boss di una cittadina che egli stesso ha ricostruito, con i suoi sgherri. Ma Carnegie mira più in alto, vuole il controllo della restante totalità dei mortali, e per farlo ha assoluto bisogno di servirsi della lettera dell’unico libro che gli manca, e che nessuno dei suoi emissari è ancora riuscito a raccattargli, in tante scorrerie banditesche. E’ qui che si incrociano i destini di Elie e di Carnegie. Questi vuole la Bibbia, che sa essere in possesso di Eli, il nuovo arrivato nella sua città bisognoso di una provvista di acqua. Carnegie, che è affascinato dal messaggio capace di smuovere le menti e i cuori del sacro libro, ma vuole usarlo per scopi malefici, è disposto a tutto per poterne disporre, anche ad uccidere l’Eletto, com’è ovvio. E ci riuscirà. Ma Carnegie non immagina che è Eli stesso il Libro che sta cercando. La Bibbia, infatti, se la porta dentro da sempre, e viaggia con lui. La Parola è scritta nella sua memoria, ed è l’orizzonte della sua immaginazione che non vide mai la luce, eppure è così illuminata: e già, Eli è cieco dalla nascita, ma nessuno se ne è mai avveduto, perché col tempo ha imparato a muoversi e a comportarsi come se fosse un uomo perfettamente normale. All’uomo empio che vuole tradire la parola di vita non resta che una copia di una Bibbia di re Giorgio in caratteri braille, inservibile per i suoi scopi. L’Eletto invece ha appena superato la sua prova più dura: ora è un Cristo novello (senza dire degli evidenti richiami profetici del nome), risorto per vedere alfine la terra promessa. Il suo lungo cammino si ferma alla baia di Alcatraz, o quella che era la baia di Alcatraz: proprio qui, nella vecchia isola-penitenziario, un filantropo (Malcolm McDowell) sta mettendo su, pazientemente, quello che potrebbe sembrare una sorta di scriptorium uscito da una distorsione temporale, meglio ancora un ricovero per opere dell’ingegno umano scampate alla devastazione. Ora la Fede in Dio riabbraccia la speranza nel futuro degli uomini: ora, in quest’incontro che sancisce una seconda genesi del mondo, egli può finalmente rivelarsi. E ultimare la sua missione, restituendo a tutti gli uomini il messaggio di salvezza eterna che spetta loro di diritto.