La recente epidemia di coronavirus raccontata secondo i dettami della storiografia classica.
A circa cinque mesi dal suo insediamento, il secondo governo Conte dovette affrontare una delle crisi più dure mai affrontate dall’Italia dalla fine della II guerra mondiale, un’epidemia di polmonite atipica diffusasi dalla Cina. Chi si sforzava di trovare un precedente paragonabile alla situazione determinatasi a partire da febbraio 2020 doveva forse risalire agli anni del terrorismo, ma messi al confronto con i morti e la paura provocati dal virus persino le bombe, i rapimenti e le bande armate sembravano ricordi di un’epoca ben più lieve. La verità è che, per come il governo affrontò l’emergenza, ai più anziani parve piuttosto di rivivere insieme, nello stesso momento, i lunghi mesi dell’austerità economica dovuta alla crisi petrolifera e quelli delle stragi nelle vie e nelle piazze.
Coronavirus al microscopio (link
Di un’influenza mortale simile alla Sars, la malattia che aveva terrorizzato il mondo nel 2003, si era iniziato a parlare da fine dicembre 2019: si trattava di un’epidemia estesasi con velocità impressionante in tutta la Cina a partire dalla regione dell’Hubei, dove i primi infettati, forse dei contadini, avevano mangiato le carni di un serpente a sua volta contagiato da un pipistrello. Dalla Cina il virus partì alla conquista dell’Estremo e del Medio Oriente, dell’Africa, dell’Oceania, dell’Europa centro-settentrionale e in seguito dell’America. In particolare sembra che in Europa il punto di irradiazione sia stato una città della Germania o una stazione sciistica dell’Austria. Tuttavia in Italia molti sospettarono sin dall’inizio che i principali focolai potessero essere indigeni, non importati: quelli della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna, dove l’epidemia esplose violenta, improvvisa e inaspettata. E in effetti fu proprio il Nord, fino alla Toscana e alle Marche, a sopportare il carico maggiore del danno e della tragedia: nel resto del Paese i contagi furono sporadici e tutt’altro che massicci, e la paura superò di gran lunga il pericolo reale. Ma a diffonderla in modo incontrollato contribuì proprio il governo che, chiaramente impreparato di fronte a un pericolo del tutto nuovo, pensò bene di estendere a tutta l’Italia, indiscriminatamente, misure adeguate alle aree dove l’emergenza era massima. La quarantena dei cittadini che, in Lombardia e in Veneto e altrove nel Nord, doveva servire a non affollare i posti nelle terapie intensive di quelle regioni, ormai vicine al collasso, fu applicata, con lo stesso rigore, agli abitanti di tutte le altre regioni d’Italia, anche quelle del Centro e del Sud, nel timore che un contagio con le stesse caratteristiche di quello lombardo-veneto potesse dilagare anche nel resto del Paese. La valutazione, dettata da una prudenza legittima ma forse eccessiva, non teneva infatti conto del fatto che, soprattutto in Lombardia, il virus aveva attecchito con dinamiche particolarissime e tempistiche assai lunghe, probabilmente più lunghe di quanto lo scoppio estemporaneo dell’epidemia potesse far credere. Alcuni si spinsero addirittura a pensare che l’inizio dell’incubazione del virus nelle terre padane potesse essere quasi coevo all’inizio dell’epidemia in Cina.
Tra un’angoscia crescente – giustificata anche da un numero di morti che, di giorno in giorno, non accennava a scendere e raggiunse il picco tra marzo e aprile – e un crescente bombardamento di notizie impressionanti, informazioni banali quando non erano vaghe e sciocchezze inaudite – veicolate, come sempre, dalla televisione e dal web –, il governo Conte decretò la paralisi delle attività commerciali e lavorative e del traffico umano dal 9 marzo fino al 3 aprile, salvo poi prolungarlo fino al 15 aprile e infine a tutto il 3 maggio.